Intervista esclusiva dello storico Alessandro Barbero sul libro su Dante

Ravenna | 21 Novembre 2020 Cultura
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Elena Nencini
Grande divulgatore e narratore, Alessandro Barbero incanta tutti: non usa i social, ma i suoi fan sono agguerritissimi (oltre 40mila solo sulla pagina «Barbero noi ti siamo vassalli») e postano i suoi video di lezioni o trasmissioni tv ovunque. Ha un modo di raccontare la storia che è stato paragonato a quello di Alberto Angela, ma in più ha una freschezza e una naturale ingenuità che lo fanno amare incondizionatamente. Oltre naturalmente a un sapere infinito che spazia dalla storia medievale che insegna  all’Università del Piemonte Orientale di Vercelli dal 1998, alle Guerra delle Falkland.
Ultima fatica affrontata per la casa editrice Laterza un volume su Dante, di cui ci racconta nel particolare i dettagli.
In tanti hanno scritto su Dante in cosa si differenzia dagli altri la sua opera? E più moderna?
«Non direi che abbia un taglio moderno, ma diverso, le vite di Dante che esistevano finora sono libri scritti da studiosi di letteratura che si proponevano il fine di illustrare l’enorme opera letteraria del poeta. Io invece sono un storico: volevo vedere se si poteva ricostruire la vita di un uomo del Medioevo. Un grande sotto tutti gli aspetti, ma io ho approfondito la vita di un uomo del medioevo. Intanto ho cominciato dagli indizi che lui stesso ha seminato nella sua opera, su di lui abbiamo il pregio di avere tante informazioni grazie ai suoi contemporanei, sufficienti a un tentativo di raccontare come sia vissuto, dalla nascita alla morte, un uomo del Medioevo. Un uomo immerso nel suo tempo. Boccaccio non lo aveva conosciuto personalmente, ma ha avuto la possibilità di intervistare le persone che lo avevano conosciuto e che avevano parlato con lui. Da quel momento non hanno mai smesso di raccogliere informazioni su Dante e di scriverne la vita. Sono informazioni che arrivano dritte dalla sua epoca e inoltre lo stesso poeta ha lasciato molte tracce nei documenti, quando faceva politica, nei verbali dei consigli comunali a cui ha partecipato e in cui magari si è alzato ed è intervenuto a  sostegno o contro una proposta. Hanno lasciato tracce nei documenti lui e i suoi familiari legate agli affari, alle proprietà, ai poderi che poi gli sono stati confiscati. C’è una vastissima documentazione d’archivio, in cui compaiono Dante e la sua famiglia».
Fra le tante cose che ha trovato in questa enorme documentazione cosa che  l’ha colpita?
«Mi ha colpito soprattutto il fatto che i verbali dei consigli comunali delle riunioni, delle votazioni permettono di ricostruire una carriera politica che non è trasparente come uno penserebbe. Anche perché in seguito a questa carriera politica è stato condannato anche per malversazioni, da un regime ostile. Quindi è stato un processo politico e la sua carriera si è interrotta brutalmente. E quando uno va a ricostruirla, conoscendo in dettaglio come funzionava la politica a quei tempi, si scopre un Dante uomo di partito, che non aveva paura di sporcarsi le mani, che ha vissuto la politica in un momento in cui era molto sporca. E lui c’è stato immerso fino al collo. Allora quando Dante parla, nella Divina Commedia, che si era perso in una selva oscura secondo me sta parlando del momento in cui si era lasciato travolgere da una politica di partito, perfino più corrotta di quella di adesso. Era una politica feroce, spietata, chi perdeva rischiava come minimo di essere cacciato dalla sua città, come è successo a Dante».
Secondo lei, quindi, Dante sarebbe andato oltre certi limiti?
«Noi non siamo qui per dire se Dante ha commesso o meno degli abusi, ma non si può nemmeno negarlo del tutto, quando si è presi in un certo meccanismo non è facile tenersene fuori. E poi quando Dante garantisce  che lui aveva in mente solo il bene comune, l’interesse collettivo della patria sono cose che scrive anni dopo. È stato un uomo che ha fatto compromessi dal punto di vista della politica: da guelfo - una volta cacciato dalla sua città, si è alleato con i ghibellini - i nemici di sempre - per rientrare  a Firenze. Lui nella Divina Commedia si presenta come un guelfo integerrimo, invece è tutto più sfumato, ricco di contraddizioni e di compromessi».
Cosa trova di veramente attuale in Dante?
«Devo fare una premessa: noi leggiamo Dante perché è un grandissimo poeta, la Divina commedia è un capolavoro dell’umanità. Noi leggiamo Dante per questo, non è detto che il suo pensiero debba per forza avere un’attualità. Il paragone fra Dante e l’Europa nasce dalla nostra paura di non essere più sicuri di questa Europa unita. Dante a un certo punto perde fiducia nei Comuni, cioè che  siano la forma politica più adatta, comincia invece a pensare che sia la ricetta per la guerra civile, per la violenza, per l’anarchia. Ci vorrebbe un potere sovranazionale, cioè, ai suoi tempi, l’Impero, Dante si convince che l’impero è l’unica via di uscita contro la guerra civile,  contro i poteri locali,  troppo invischiati negli interessi personali, meschini. Oggi Bruxelles potrebbe essere un potere che si ripromette di fare l’interesse collettivo come l’Impero. Il dibattito è aperto, per Dante un potere sovranazionale era migliore».
C’è una cantica o una terzina alla quale è particolarmente affezionato?
«Amo molto il V canto dell’Inferno e l’episodio di Paolo e Francesca, perché Dante è anche un poeta che ci commuove,  è un bellissimo poeta d’amore. E quando racconta di queste persone e di come è possibile, nel medioevo, che una ragazza, Francesca, sposata con un uomo anziano, e suo cognato, stessero insieme in una stanza a leggere insieme un romanzo e che leggendo quel romanzo, che è una storia d’amore, si accorgono che sono innamorati. E Francesca lo dice “La bocca mi baciò tutto tremante”, ecco è  uno dei momenti emozionanti della Commedia. Ecco io riesco a vedere le persone del medioevo, quelle persone che io studio tutti i giorni,  nella loro vita più intima».
Parlando di grandi epidemie, cosa si sente a vivere in quello che lei ha definito un «episodio unico nella storia»?
«All’inizio devo confessare che noi storici ci siamo detti “è triste, è molto pensante, però sarà molto interessante vedere dall’interno cosa succede. Devo dire che fare della storia in realtà significa interessarsi del passato, scoprirelo attraverso i documenti, fare un’esercizio di indagine alla Sherlock Holmes. Viverci dentro è un’altra cosa, non conta fare lo storico, vivi la stessa sofferenza e la stessa malinconia che vivono tutti gli altri. In realtà vorrei molto che questo momento fosse già finito».
Dalle epidemie del passato, dalla peste manzoniana alla febbre spagnola, possiamo imparare qualcosa?
«Possiamo imparare che la società occidentale effettivamente, molto presto si è attrezzata per reagire, cioè non fa parte di noi che le cose succedano aspettando che finiscano. Noi siamo fatti per darci da fare, per cercare delle contromisure. Non dico che sia la cosa migliore, per il momento lascerei in sospeso questo discorso, l’Europa nel ‘600 e ‘700 ha sconfitto la peste a forza di quarantena e cosi via, mentre in altre civiltà, come nell’Islam, non c’era la stessa forza nel combattere, c’era adattamento, credo fanatismo. Storicamente il nostro bisogno di reagire può essere molto efficace, credo che sia importante prendere atto di questa caratteristica. Noi apprezziamo i governi che fanno qualcosa, qualunque sia. Non siamo capaci di dire “Aspettiamo che passi”».
Da storico, come pensa che Dante sentisse Ravenna?
«Ravenna all’epoca era vissuta in modo molto diverso da quella immaginata in tempi più recenti, tutta l’epopea della città bizantina, della città morta anche in un certo senso, tutta rivolta al passato. Ravenna al tempo di Dante era una città velocissima, piena di commerci, di attività, di soldi che giravano, di mercanti stranieri, di intellettuali. Dante a Ravenna ha raccolto un gruppetto di grandi menti, che si occupava di scienza, di poesia. Ravenna, come tante altre città italiane, in quel momento, erano i luoghi più veloci del mondo cristiano occidentale.  Era un luogo attivissimo dove Dante non è andato a cercare pace e silenzio. Dante è vissuto a Ravenna, senza sapere che ci sarebbe morto, come avrebbe potuto vivere a Bologna o a Verona, cioè in altre metropoli dove trovava tutti quegli interessi dello spirito, oltre a possibili sistemazioni per i suoi figli perché Dante ha cercato in tutti modi di sistemarli con dei benefici ecclesiastici come usava allora. Questa era la Ravenna di Dante».
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