Crisi Afghanistan, la ginecologa Matteucci nel 2013 ad Anabah con Emergency: «Donne come noi, ma senza diritti»

Ravenna | 28 Agosto 2021 Cronaca
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«Le donne afgane hanno le stesse necessità e gli stessi istinti che hanno tutte le altre. Sotto il burqua sono molto curate e femminili. Loro, tuttavia, non sono libere di scegliere». Carlotta Matteucci, ginecologa originaria di Cotignola e residente a Ravenna, da poco passata dalle corsie dell’ospedale «Santa Maria delle croci» alla rete dei consultori, è stata in Afghanistan come volontaria di Emergency  da fine febbraio a inizio giugno 2013.
Come ha maturato questa idea?
«Stavo facendo la scuola di specializzazione di ginecologia e vi era l’opportunità di trascorrere un periodo all’estero. Sono sempre stata interessata a questo tipo di missioni umanitarie. Così mi sono guardata attorno e mi è piaciuto il progetto di Emergency sul centro di maternità di Anabah composto da uno staff medico e sanitario di sole donne e personale prevalentemente afgano. Mi è sempre piaciuta la filosofia dell’associazione che cura tutte le persone, talebani e non talebani, senza distinzioni».  
Che situazione ha trovato quando è arrivata?
«A prima vista, Kabul poteva sembrare una città ‘normale’. Ma bastava voltare lo sguardo per notare uomini col Kalashnikov e donne, tutte le donne, con il burqua.  Anabah si trova nella valle del Panshir, in montagna: un paesaggio reso brullo dalla passata occupazione russa, a circa un’ora e mezza di auto dalla capitale. Quando sono arrivata c’era la neve. In ospedale, ho trovato uno staff molto stanco e provato. Sarebbero stati sufficienti pochi giorni ed anch’io avrei avuto lo stesso sguardo ‘tirato’».
Come erano considerate le donne afghane?
«Le afgane non hanno gli stessi diritti che noi diamo per scontati. Una donna, prima di sottoporsi a un intervento medico, doveva avere il consenso di un familiare maschio. E’ capitato un caso in cui non vi erano parenti maschi maggiorenni e il consenso è stato chiesto al figlio minorenne. Tuttavia, l’ospedale di Emergency promuove, al suo interno, l’occupazione e l’emancipazione femminile: tutte le donne, dalle pazienti al personale sanitario, sono tenute a lasciare il burqua in guardaroba».  
E’ stata dura?
«Si lavorava tantissimo e la nostra era una vita surreale. Alloggiavo con alcune colleghe in una casa di terra, con i servizi all’esterno, in un vicino villaggio. Il fuoristrada ci accompagnava in ospedale alla mattina e ci riportava la sera. Ma eravamo reperibili 24 ore su 24 e non sono mancati gli interventi notturni. Potevamo uscire di casa: non c’erano coprifuoco o divieti. Ma il protocollo di Emergency puntava alla massima sicurezza dei volontari».
Ha avuto paura?
«La situazione era talmente instabile che sarebbe potuta cambiare da un momento all’altro. In quei mesi abbiamo avuto un’allerta attentati: in quel caso abbiamo ridotto al minimo gli spostamenti e avremmo potuto essere immediatamente rimpatriati. La paura è connaturata a certi posti, ma mi sentivo tutelata dall’associazione. La presenza dei talebani si respirava. Probabilmente avrò curato mogli di talebani senza nemmeno saperlo».  
Che tipo di problemi sanitari ha dovuto affrontare?
«Ho visto un’ostetricia di altri tempi. Le strutture pubbliche afgane sono decisamente scadenti e molte donne, poco curate e poco controllate, presentavano criticità e patologie portate avanti fino allo stremo. Situazioni che, in Italia, si verificavano probabilmente 100 anni fa. Cose che, spero, non vedrò mai più». 
L’intervento più praticato?
«Il taglio cesareo».   
Quali storie l’hanno colpita di più?
«Una collega afgana era disperata perché si era innamorata di un uomo, ma la famiglia l’aveva promessa ad un’altra persona. Poi arrivavano donne che venivano a partorire figli fuori dal matrimonio. Il padre le avrebbe punite e rischiavano la vita. Ho visto una donna accoltellata proprio perché incinta e senza marito. Purtroppo, per il nascituro, non c’è stato nulla da fare. Ho visto anche una ragazza morire per una complicanza durante il parto. Il padre della donna, tuttavia, ha rinnegato il bimbo nato fuori dal matrimonio».

Samuele Staffa


 
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