Chiude la rassegna di SettesereQui a Punta Marina con il thriller di Paola Barbato
Concluderà la rassegna «Perle di libri sulla sabbia» 28 agosto, ore 21, Paola Barbato, sceneggiatrice di Dylan Dog, con il romanzo Non ti faccio niente (Piemme). L’appuntamento, curato dal nostro settimanale SettesereQui si avvale della collaborazione della rassegna «GialloLuna NeroNotte» Barbato, dopo Bilico, A mani nude e Il filo rosso, torna a indagare i sentimenti con il suo ultimo libro, un romanzo con tante storie e tante domande a cui si cerca di dare risposta, ma non può fare a meno di lasciarci alle spalle un grande interrogativo: chi è la vittima e chi è il carnefice?
Trentadue bambini in sedici anni vengono rapiti e restituiti dopo 3 giorni. Non è la prima volta che succede e non sarà l’ultima. Tutti tenuti per tre giorni da un uomo che cerca di realizzare i loro desideri e li restituisce alla famiglia, felici. Quando la polizia comincia a collegare i rapimenti lampo, l’uomo scompare. Ma non è finita, dietro ci sono ombre e luci, paure e ferite mai guarite.
Barbato, è’ più difficile sceneggiare o scrivere un romanzo?
«Sceneggiare è molto più difficile che scrivere un romanzo. È un mondo di regole intricate. La sceneggiatura ha tempi ed equilibri precisi, ragiona per cerchi concentrici, bisogna visualizzare tutti i tipi di inquadratura cinematografica, e dare poi le giuste indicazioni ai disegnatori. Ci sono fior di colleghi scrittori che non sono capaci di scriverne. L’incontro con la sceneggiatura è stato casuale. Ho imparato a sceneggiare in diretta sotto la guida di Tiziano Sclavi e Mauro Marcheselli. Ho dovuto imparare una disciplina che ancora non mi sembra di padroneggiare pienamente. Il testo di prosa è stato il mio primo avvicinamento alla scrittura. Mi sono accorta di scrivere fin da quando avevo 18-19 anni, poi non ho smesso mai perché per me è forte il bisogno di scrivere, il secondo è il bisogno di essere letta. E’ tristissimo scrivere per compiacersi, da soli, della propria scrittura. Comunico molto meglio con la scrittura rispetto anche alla parola parlata o alla comunicazione fisica».
Perché scrive di thriller e di paura??
«Perché io sono una persona inquietante, non se ne accorge? – risponde ridendo. Si pensa, erroneamente, che chi scrive di tensione deve essere una persona cupa, invece la tensione ce l’ha in se, come Stephen King che scrive di paura, perché conosce la paura. È facile attingere alla paura perché spaventa anche me. Sono romanzi di tensione, che si declinano in varie maniere. Mi interessano tanto gli esseri umani, sono una specie, in negativo che non si esaurisce mai. Raramente mi sorprendono in positivo. Mi interessano come gli eventi creano tensione e impattano sulla vita delle persone, creando un’azione/reazione».
Lei ha tre figli piccoli. L’idea del rapimento su cui si basa il romanzo nasce da una sua paura?
«Per una madre perdere un figlio è una cosa terribile, ma non sapere che fine abbia fatto è ancora peggio. E’ una paura universale, io l’ho rivisitata e rivissuta da un altro punto di vista. Era una delle grandi paure degli anni ‘90, in Aspromonte c’era solo di quello. Il mio è il punto di vista della bambina, da adulta ho la speranza di avere un margine di controllo che da piccola non sentivo di avere. Da bambina c’era la paura di essere portati via, c’era il senso dell’estraneo, dello straniero, ma invece poi si è scoperto che rappresentava il boom delle molestie fatte sui minori dal vicino di casa».
Il rapitore soddisfa tutti i desideri dei bambini. Perché?
«E’ una figura che vuole essere da monito nei confronti dei genitori. Spesso i bambini si lamentano della mancanza di attenzione da parte di mamma e papà, ti dicono infatti “Guardami, guardami”. Io ho parlato della mancanza di attenzione di determinati genitori con determinati bambini. Loro non vogliono essere soddisfatti da un Babbo Natale qualsiasi che poi sparisce, ma dai loro genitori».