Al Masini venerdì 28 Alessandro Benvenuti con lo spettacolo nato nel lockdown

Ravenna | 28 Gennaio 2022 Cultura
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Elena Nencini
Non mancano le parole ad Alessandro Benvenuti per raccontare il suo spettacolo Panico ma rosa. Diario del tempo sospeso che sarà al Teatro Masini di Faenza venerdì 28 (ore 21). Il comico toscano infatti ha trasformato il periodo di lockdown in un diario in cui raccontare le riflessioni sulla forzata “quarantena” a causa del coronavirus. 59 pagine di un diario da cui emerge l’isolamento obbligatorio di un autore–attore, privato del palcoscenico, suo naturale habitat. Diventato poi una serie per i social del Teatro di Tor Bella Monaca a Roma e trasformato poi in un vero e proprio spettacolo. Un viaggio nella mente di Benvenuti, tra sogni e fantasie, tra ricordi del passato e riflessioni sul presente, per non arrendersi a questo periodo ancora difficile, come racconta l’attore toscano. 
Benvenuti come nasce il titolo «Panico ma rosa»?
«E’ il mio ottimismo in questo momento di panico o che c’era durante le prime fasi del lockdown quando ho scritto il diario, ma è anche legato alla seconda stagione della pandemia che aveva perso parte della novità, ma stava diventando uno stato di cose preoccupante: perché uno pensa di esserne fuori e invece ci ricasca. Il rosa indicava che uno deve resistere con i suoi mezzi psicologici, mentali, materiali. E’ una sorta di augurio. Ma è un titolo che ho in mente da molti anni perché era l’acronimo di una ditta di un amico formata dalle iniziali dei nomi e cognomi dei tre soci. Mi era sempre sembrato un titolo meraviglioso. Ogni tanto mi appunto titoli che mi piacciono: come uno di Ugo Chiti che è Lercio show. Se trovo attinenza con quello che scrivo, li utilizzo».
Come è nata l’idea inizialmente?
«Era l’unico modo per tenermi in contatto con le persone che, in ambito artistico, mi seguono. Ho pensato che la cosa più affine a me, e coerente, fosse quella di tenere un diario, dove io, grande orso, parlavo anche di infanzia, di ricordi. L’idea di farmi conoscere come persona invece che come personaggio mi sembrava la cosa più carina e affettuosa da farsi. Decine di persone mi hanno chiesto di non fare morire quelle cronache giornaliere che per alcuni erano la fiaba prima di andare a dormire, per altri erano la prima lettura mattutina del quotidiano durante la colazione. Sono stato stimolato dai lettori di questo mio diario; da 170 pagine che ho scritto nei due mesi di lockdown ne ho tirato fuori 33 che sono l’ora e un quarto dello spettacolo».
Quanto ha sofferto la mancanza del pubblico?
«Sofferto è un termine troppo impegnativo, mi sono adattato a quella sorta di rassegnata prigionia, vivendo con curiosità e senza tanta apprensione, ma con dolcezza, questa dimensione familiare tra me e mia moglie. Mi reputo un privilegiato perchè mi sono potuto permettere di stare fermo con il lavoro. Ogni anno faccio I delitti del Bar lume, che sono un ottimo guadagno e sono direttore artistico del teatro di Tor Bella Monaca a Roma e dei teatri di Siena. Non ero nella condizione disperata di tanti miei colleghi, in particolare quelli più giovani, che sono rimasti d’improvviso senza stipendio. Ci siamo accorti con mia moglie Chiara, con cui sto da 33 anni, che si sta bene anche insieme dalla mattina alla sera, solo noi e gli uccelli a cui diamo i semini tutte le mattine. E poi è venuta una delle tre figlie che ha fatto un progetto fotografico intorno al diario, scegliendo una fotografia al giorno come scenografia. Panico ma rosa è diventata la descrizione delle ferite psicologiche rimaste, e queste sono attualissime, nella testa di tante persone, soprattutto nei giovani. E’ la descrizione di una sorta di schizofrenia mentale, figlia di questo disastro sanitario e quindi anche un’analisi di tutte le cose che nel momento dovremmo smaltire e ri-sanare».
Come si svolge il monologo in scena?
«E’ un diario: ogni giorno è un capitolo, è lo spettacolo più difficile che io abbia fatto, più difficile della trilogia dei Gori, anche a livello interpretativo e drammaturgico. E’ bello complicato vivere un diario, si parla di Dio, della chiesa, della cresima, di me chierichetto, dei rapporti con la nonna, si parla di filosofia, si cita Einstein. La complessità dello spettacolo è mettere 59 giorni di vita,  uno stile sempre diverso, ogni volta il racconto differente da quello del giorno prima. Recitare uno spettacolo così è un impegno grosso, passi da stati d’animo completamente diversi: non a caso ho detto che è una schizofrenia, un bombardamento neuronale. E’ la descrizione di uno smarrimento mentale. E’ un gioco tra me e il pubblico, molto pertinente con quello che ho vissuto in questi due anni quando ho anche pensato se non era il caso di smettere e di andare a coltivare un orto in Toscana».
Un particolare ricordo di Faenza?
«Ho presentato un mio concerto con la mia piccola band in piazza al Mei, ho fatto la rock star per 5 anni, ma non se ne è accorto nessuno. Quella sera piena di nebbia in quella bellissima piazza è stato molto emozionante. Poi tre anni fa ho portato L’avaro di Molière, fatto con Arca azzurra dove facevo un Arpagone incredibile, una macchina da guerra. Ricominciammo da lì la terza tournée c’era il tecnico di palcoscenico, di cui non mi ricordo il nome, ma ricordo la sua civiltà, la sua gentilezza, che mi disse “è la prima volta che vedo uno spettacolo da dietro le quinte e non sono riuscito a schiodarmi da li per tutto lo spettacolo. Una serata strepitosa».
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