100 anni Pci | Vasco Errani: «Il confronto per costruire una sinistra popolare»

Ravenna | 01 Febbraio 2021 Politica
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Samuele Staffa
«Occorre avere una idea di Paese e dotarsi di una cultura politica. Questo sicuramente il Pci, ma anche gli altri partiti della prima Repubblica, l’avevano». Vasco Errani è partito dalla provincia per diventare una figura di spicco del partito ravennate e salire alle cronache nazionali, prima come presidente della Regione, poi come Commissario straordinario per il terremoto del Centro-Italia. Nel 2018, un anno dopo la frattura col Pd, è stato eletto senatore col simbolo di «Liberi e uguali».
Errani, come si è avvicinato per la prima volta alla politica e al Pci?
«Io vengo da Massa Lombarda, un luogo dove la cultura dell’antifascismo, della lotta partigiana e del Pci hanno radici profonde e si respiravano nell’aria. La mia stessa famiglia ha una storia che parla di quella esperienza, mia madre era staffetta e mio padre partigiano. Poi vi furono gli anni del movimento studentesco, al liceo scientifico a Lugo, erano gli anni della guerra in Vietnam, di grande fermento politico e culturale soprattutto tra i giovani e gli studenti, in quegli anni posso dire che inizia il mio vero avvicinamento all’impegno politico e alla Fgci».
Che significato aveva l’espressione «essere di sinistra» 50 anni fa?
«Quella parola aveva, e continua ad avere, il significato di porsi dalla parte di chi vuole cambiare i rapporti sociali in una società che vive le contraddizioni della diseguaglianza. Significa stare dalla parte dei più deboli e dei subalterni, dei diritti dei lavoratori. Certo tutto questo oggi si pone in termini molto diversi e nuovi rispetto a cinquanta anni fa: la società è profondamente cambiata, il lavoro è cambiato, abbiamo di fronte la grande sfida tecnologica, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’acuirsi delle diseguaglianze ma il significato di fondo rimane sempre lo stesso».
La politica, da allora, è cambiata in meglio o in peggio?
«Partiamo dal dire innanzitutto che la politica è cambiata, quel mondo, quel modo di fare politica oggi non esiste più e mi permetto di dire che sarebbe anche un po’ ingeneroso fare dei paragoni. È cambiato tutto, la società è frantumata, la tecnologia ha cambiato le forme attraverso cui si costruisce il senso comune e l’immaginario collettivo. È un portato anche della destrutturazione liberista degli anni ’80: con la globalizzazione è cambiato il ruolo degli stati nazionali, in altre parole è un altro mondo. Un personaggio che non è certo sospettabile di simpatie comuniste, Giovanni Paolo II, dopo il crollo del comunismo ebbe a esprimere una sua preoccupazione formulata in questi termini “ho combattuto tutta la vita contro i comunisti, ma ora che il comunismo è caduto, mi domando chi difenderà i poveri”. Se la sinistra oggi, non solo in Italia, di fronte alla necessità di interpretare questi cambiamenti intende continuare a svolgere un ruolo utile a mettere in discussione i rapporti sociali e a combattere le ingiustizie deve proporre una visione del mondo che tenga fermi i riferimenti e i valori di fondo. Rimane il compito fondamentale di analizzare la complessità della società che abbiamo davanti e proporne un cambiamento nel senso della giustizia sociale. A pensarci bene forse è proprio questo il problema della sinistra moderna: ricostruire un pensiero e una cultura politica che oggi sono inadeguate».
Chi sono le persone che l’hanno accompagnata lungo il suo percorso politico? 
«La storia del Pci è la storia di una grande comunità di uomini e donne, di vite che si intrecciano, di grandi personalità e tante maestre e maestri. Quindi sono tante e tanti i compagni che dovrei ricordare, da Luigi Mattioli, Mario Cassani, Davide Visani a Giordano Angelini che sono stati per me riferimenti importanti, solo per citarne alcuni, c’erano poi grandi personalità come Arrigo Boldrini ed Ennio Cervellati per quanto riguarda la mia esperienza a Ravenna. Poi sicuramente Berlinguer, Ingrao, Amendola, Trentin, Nilde Iotti che con posizioni anche profondamente diverse, sono le persone che hanno dato un contributo molto importante alla mia formazione. Sono della generazione dei “ragazzi di Berlinguer”, il suo ruolo per me è stato fondamentale e voglio solo ricordare due cose importantissime: la sua battaglia sulla questione morale e una straordinaria intervista che gli fece Adornato su 1984 e Orwell in cui disegnava già molto di ciò che sarebbe avvenuto nei decenni a venire».
Cosa è successo dopo la svolta della Bolognina?
«Il partito era in mare aperto in un mondo in impetuosa trasformazione. Erano gli anni della globalizzazione, di una crescita che si credeva infinita, ci si è domandati a questo punto quale fosse la funzione del socialismo e della socialdemocrazia, si pensava di essere davanti ad una epoca di continua espansione economica e dei diritti. Era ovviamente un ottimismo mal riposto, ma questo indusse a pensare che i partiti della sinistra dovessero oramai occuparsi solamente di “gestire” la globalizzazione e redistribuire questa ricchezza. Poi le contraddizioni del mondo sono tornate a galla, perché nei fatti non erano mai scomparse: la globalizzazione non solo ha rallentato, ma ha mostrato il suo lato più feroce. La politica si venne a scontrare con un potere economico senza confini nazionali e mostrò la propria inadeguatezza anche perché molti di quei paradigmi neo liberisti li aveva oramai incamerati. Poi la crisi economica del 2008, i cambiamenti ambientali, le vecchie e nuove disuguaglianze, una nuova distribuzione del lavoro e le rivoluzioni tecnologiche hanno iniziato a rimettere in discussione quel modello. Oggi la drammatica vicenda della pandemia ci mette ancora di più di fronte ad un bivio, ma era già cambiato tutto anche prima del Covid: semplicemente pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato, come dice Papa Francesco. Oggi è ancora più evidente che l’attuale sistema politico e le attuali visioni sono inadeguate a rispondere ai problemi del Paese. Per questo occorre un “di più” di politica. Occorre proporre un nuovo patto sociale e avere il coraggio di mettere in discussione le rendite di posizione. Per fare questo però torno al punto sollevato nella domanda di prima sui limiti della politica moderna: occorre avere una idea di Paese e dotarsi di una cultura politica. Questo sicuramente il Pci, ma anche gli altri partiti della prima Repubblica l’avevano. Oggi occorre avviare da subito una discussione, un cantiere per costruire una sinistra larga, popolare che sappia superare sulla base di una analisi della realtà e delle sfide che abbiamo di fronte le vecchie divisioni oramai superate e costruire una visione di futuro».
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