La storia di Gianì 'd Badiet, faentino al Kgb nel nuovo libro di Angelo Emiliani

Faenza | 12 Novembre 2019 Cultura
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Federico Savini
«E’ proprio sulla mancanza di informazioni che si è innescata la fantasia dei faentini. Questo aspetto ha reso la mia ricerca nello stesso tempo difficile e necessaria. E anche più importante di quanto pensassi all’inizio, perché raccontare di Giovanni Bertoni mi ha letteralmente trasportato nella Faenza degli anni ‘20». Angelo Emiliani è un modesto di natura, ma fatica un po’ anche a lui a non ammettere che il libro appena pubblicatogli dal Ponte Vecchio Giovanni Bertoni. Un romagnolo nel Kgb ha un’importanza che va molto oltre la ricerca dei fatti di una vita già di per sé straordinaria, come quella dell’antifascista faentino Bertoni, che scappò dalla città molto prima della Guerra, arrivando a far carriera a Mosca e poi rendendosi protagonista, ancorché defilato, di alcuni degli snodi più cruciali della storia del Novecento. E tutto questo celandosi in quell’ombra che calza come un guanto a un agente segreto e che a Faenza perdura da 90 anni, quando si parla di una figura tuttora avvolta da (spiegabilissimo) mistero e di cui, se non era per Emiliani, avremmo rischiato di perdere ogni memoria. «Il ricordo di Giovanni Bertoni e dei tragici fatti di cui fu protagonista va dissolvendosi - commenta Emiliani -. Ma per molti decenni tutti hanno saputo, a Faenza, chi fosse Gianì ‘d Badièt, tutti avevano sentito dire di come e perché uccise due fascisti, nei pressi della chiesa dei Servi, nel periodo più tormentato e lugubre della storia recente della città».
Come mai proprio lui? Perché hai dedicato tante ricerche a Giovanni Bertoni?
«Perché la sua storia ha davvero i crismi della straordinarietà e poi perché avevo i mezzi per farlo. Sono cresciuto in ambienti nei quali il suo nome ricorreva spesso, carico di mistero, quindi la voglia di indagare su di lui l’ho covata a lungo. L’occasione concreta per cominciare a farlo risale a trent’anni fa. Nell’89 la figlia di Bertoni venne a Faenza e mi fu chiesto di trovarle un’interprete, visto che parlava solo russo. Quando arrivò, qualcuno le disse che ero appassionato di storia e avrei potuto raccontare la vita di suo padre. Così, complici alcuni mediatori di Roma, amici suoi, siamo rimasti in contatto e ho avuto accesso a tanto materiale inedito su Bertoni».
Quanto è stata difficile la ricerca?
«Molto, per tante ragioni. Ho anzitutto cercato in archivi e biblioteche, e letto tantissimo materiale, anche per trovare pochi indizi, visto che parliamo di una figura che, come agente del Kgb, ha sempre agito nell’ombra. A rendere la ricerca ancora più complessa, ma anche più importante, è stata la natura controversa di questo personaggio, che non uccise solo a Faenza. Ho titubato per un certo periodo, poi ho capito che la cosa da fare era una soltanto: comprendere bene in quale contesto Bertoni fece quel che ha fatto. E quel contesto è la Faenza del primo fascismo».
Niente meta-fiction, insomma. Bertoni, romagnolo poi agente del Kgb, si presterebbe, ma hai scelto la storia…
«Sì, non ho avuto dubbi e credo che altrettanto indubbiamente questa scelta non aiuterà a vendere (ride, dna). Diciamo che, semplicemente, non ero interessato a metterci del mio, tanto più per l’importanza che assume il contesto storico della città negli anni ‘20».
E quali sono le peculiarità della Faenza del primo Fascismo?
«Sono tante, praticamente occupano la prima metà del libro, con l’uccisione degli squadristi da parte di Bertoni che segnò il culmine di un periodo in cui il clima era asfissiante. Un periodo che meriterebbe ulteriori indagini, ma in sintesi Faenza aveva caratteristiche culturali ed economiche tali da aver “prodotto” pochi fascisti e pochi oppositori del regime. L’assenza di fabbriche e associazionismo bracciantile portò alla modesta penetrazione di idee socialiste, comuniste e repubblicane, più diffuse nel forlivese, nell’imolese, nel ravennate e nella Bassa. A Faenza la società era frammentata proprio per categorie economiche e le idee attecchivano in gruppi molti piccoli. Vale anche per i fascisti, che infatti erano pochi. Alla fine del 1922 a Ravenna il partito aveva 2.624 iscritti, di cui metà squadristi, e i numeri del lughese erano in linea. Invece in tutto il comprensorio faentino c’erano poco più di 400 iscritti! E la conseguenza fu una violenza paradossale, perché i fascisti faentini nelle rappresaglie si facevano aiutare dai più facinorosi fra gli squadristi delle zone limitrofe, che per di più agivano lontano da casa, senza remore…».
Da qui le uccisioni di Bertoni. Che poi si volatilizzò. In città che voci circolavano?
«Per decenni gli fu attribuito di tutto, anche di aver combattuto fianco a fianco di Che Guevara e Ho Chi Minh! Non a caso dicevo che sarebbe stato facile romanzare la sua vita. Ma anche attenendomi ai documenti ufficiali, con rigore da ricercatore, non è stato semplice discriminare l’attendibile dal non attendibile».
Nel complesso dibattito sull’eredità della guerra prevale in genere il punto di vista secondo il quale, pur avendo commesso atrocità entrambi gli schieramenti, fascisti e antifascisti combattevano per ideali talmente diversi da fare poi la differenza in termini di giudizio storico e morale. Nel caso di Bertoni, il suo essere antifascista, con la Storia che in qualche modo gli ha poi dato ragione, quanto peso ha avuto nel giudizio che di lui hanno dato i concittadini?
«Chiaramente la figura è controversa e i giudizi non sono tutti uguali, però io ho spesso colto giudizi molto accondiscendenti nei suoi confronti. Ho ritenuto necessario approfondire il clima che si respirava a Faenza negli anni ’20 proprio per dare un contesto a quelle violenze. Anche se molte persone non condividevano il fascismo, furono pochi a ribellarsi, arrivando anche alla violenza estrema, per difendersi o vendicarsi. E Bertoni e i pochi che come lui alzarono la testa erano visti come vendicatori coraggiosi, che sfidarono la morte per la dignità. In una guerra civile non si può decontestualizzare: nei conflitti tradizionali il nemico parla pur sempre un’altra lingua, ha un’altra cultura e spesso è proprio un invasore, ma nelle guerre civili non c’è un comparabile argine etico, si può arrivare ad ammazzare un amico d’infanzia. Bisogna inoltre tener conto di chi è stato Giovanni Bertoni e il suo vissuto parla chiaro. Aveva senza dubbio grande scaltrezza e intelligenza, è uscito indenne da “bufere” incredibili, mostrando grandi qualità anche in Unione Sovietica. Superò anche la de-stalinizzazione, mantenendosi saldo mentre intorno a lui cambiava tutto. Qualche anno fa, il film Il ponte delle spie ha dato notorietà postuma a Rudoľf Abeľ, pilastro dello spionaggio sovietico in Nord America, che venne catturato nel ’57. Ecco, Bertoni era un po’ il suo omologo in Sud America. E non è mai stato preso!».
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