La mostra del Mic sulle Manifatture Lenci indaga la ceramica nel quotidiano

Faenza | 03 Marzo 2018 Cultura
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Sandro Bassi
Ben 152 opere compongono la mostra «Lenci: costume e bon ton curata da Claudia Casali e Valerio Terraroli, della raccolta privata di Giuseppe e Gabriella Ferrero. Si tratta di plastiche o di vere e proprie piccole sculture da arredo domestico (aristocratico e lussuoso ma sostanzialmente domestico), prodotte fin dal 1927 dalla storica manifattura torinese Lenci; l’azienda scelse per nome un acronimo, da «Ludus Est Nobis Constanter Industria», cioè «Il gioco è per noi lavoro continuo» e, come recita il sottotitolo, seppe riflettere gusto dell’epoca, mode, costume e bon ton.
Basta guardare i soggetti, che spaziano dalle scenette di genere fino a un erotismo malizioso e ammiccante. In mezzo c’è tutto un mondo: figure religiose (san cristofori, fughe in Egitto, madonne e un languido San Sebastiano che di religioso ha assai poco), figure mitologiche (centauri e satiri, una spassosa Susanna con i Vecchioni, Diane e Atteoni), popolari (contadini e zampognari, famiglie povere riunite attorno al tavolo per la preghiera prima del frugalissimo pranzo, personaggi da presepe). Settori particolari sono quelli dei costumi regionali, raffinatissimi (si veda la pastora sarda e le contadinelle siciliane e abruzzesi) o talvolta indugianti su luoghi comuni stereotipati, come nel brigante di retaggio ottocentesco, delle scenette di genere (damine, pierrot, arlecchini e coppiette di danzatori) e degli animali, resi con spettacolare riconoscibilità naturalistica: gabbiano ferito, lince, una coppia di svassi, faraona, l’ermellino che ghermisce un barbagianni e la genetta che preda un gallo cedrone, lontre che insidiano pesci nella vasca da giardino e martin pescatori che i pesci li hanno già nel becco.
Da un punto di vista tecnico si tratta di terraglie prodotte a colaggio, quindi «oggetti seriali», sfornati industrialmente, tuttavia sempre dipinti a mano e spesso in serie limitate, tanto che in alcuni casi è presumibile siano oggi copie uniche.
Nata nel 1919 a Torino per la fabbricazione di giocattoli in legno e, subito dopo, di bambole e pupazzi in feltro (il famoso «pannolenci»), dal 1927 la ditta iniziò a produrre ceramiche, dotandosi di plasticatori abilissimi come Sandro Vacchetti, Gigi Chessa, Mario Sturani (presente con le «Quattro stagioni» e con il curioso «ubriacotto» abbracciato ad un lampione) e la stessa Elena König Scavini, moglie del fondatore. Fra i progettisti che concepivano e disegnavano i pezzi ci furono anche artisti di caratura internazionale come Marcello Dudovich, triestino sposatosi con una faentina, sublime interprete di un déco elegantissimo.
Le terraglie Lenci ebbero un successo strepitoso fin quasi alla guerra, poi conobbero una produzione altalenante fino alla chiusura del 1964 (tuttavia il marchio, dopo numerosi passaggi, è ancora attivo). La stagione di fine anni Venti-primi Trenta si configura come la più fortunata e artisticamente migliore, sia perché rispecchia il concetto «sociale» formulato da Giò Ponti della «casa borghese che ha diritto a dotarsi di decorosi oggetti d’arte», sia perché fu fedele figlia della sua epoca, rispecchiandone vizi e virtù in un modo che oggi può apparirci tipicamente «lezioso», termine che, non a caso, suona simile a «delizioso».

Inaugurazione sabato 3 alle 18. Apertura dal 4 marzo ore 10-17.30 (sabato e domenica) e 10-13.30 (feriali).
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