Ravenna, dalla crisi Pansac al rilancio Raviplast, i 10 anni della nuova cooperativa

Emilia Romagna | 30 Aprile 2022 Economia
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Elena Nencini
Dalla crisi della Pansac di Ravenna nel 2013 nasce la cooperativa Raviplast, grazie al percorso workers buyout in Italia - il wbo è un’azione di salvataggio dell’azienda, o di una sua parte, realizzata dai dipendenti che subentrano nella proprietà  - non troppo diffuso in Italia. I lavoratori da dipendenti si sono così trasformati in impresari riuscendo a rilanciare - grazie all’appoggio del mondo della cooperazione (Agci, Confcooperative e Legacoop in maniera unitaria) - l’azienda che la vecchia proprietà voleva smantellare.
Tra le figure chiave del progetto ci fu Carlo Occhiali, responsabile «Progetti speciali servizi» di Legacoop Ravenna, oggi amministratore delegato di Raviplast, che ci racconta di quasi dieci anni di lavoro nell’azienda della Darsena, e di come sta cambiando il mondo del lavoro nel settore degli imballaggi, sempre più in corsa, tra problemi di materie prime e costi.
Sono passati quasi dieci anni dalla nascita di Raviplast come è andata?
«Il primo anno pieno è stato il 2014, anche se io sono entrato in fase di transizione: è stata una bella corsa molto impegnativa con risultati complessivamente soddisfacenti. Anzi, al netto della terribile situazione odierna, sono sicuramente soddisfacenti. Abbiamo consolidato un giro d’affari importante in un settore dove è difficile avere clienti continuativi. I fornitori esclusivi non esistono, ogni cliente ne ha almeno un paio a cui rivolgersi. Oggi abbiamo circa 300 clienti abbastanza fissi. Oltre ad avere consolidato i clienti è cresciuto il fatturato del 35% rispetto al primo anno, e visto che l’obiettivo di una cooperativa è garantire il lavoro ai soci da 21 che eravamo oggi siamo in 31 lavoratori, di cui 25 soci. Un bel consolidamento dell’occupazione iniziale». 
E’ stato un salto nel buio questo percorso?
«Io sono arrivato nel momento di elaborazione del progetto, conosco la grave crisi che ha attraversato la ex Pansac attraverso i racconti ed è stato un momento drammatico per tutta la città. Credo che il modello buyout sia ancora utilizzato pochissimo, dieci anni fa era veramente innovativo nonostante la legge Marcora sia del 1985 e, ad oggi, siano 350 i percorsi intrapresi in Italia. E’ un modello societario ingiustamente eccezionale, permette di salvare le competenze e le esperienze lavorative, ma funziona solo se sono date alcune condizioni. Per questo abbiamo verificato se era un salto nel buio o un progetto sostenibile. Ci volevano 4 condizioni: la credibilità del progetto industriale, i lavoratori, il sostegno del territorio e le risorse finanziarie. Questi ultimi due sono stati fondamentali perché abbiamo lavorato con tutti gli enti del territorio per mettere la fabbrica in regola, inoltre i 500mila euro  messi dal movimento cooperativo sono stati bilanciati dalla stessa cifra investita dai lavoratori che hanno impegnato indennità lavorative e altro. E’ stata una grande scommessa ma non giocata mai alla cieca ne’ da soli».
Come è andato il bilancio 2021?
«Lo stiamo chiudendo in queste ore, ma è un bilancio complicato da tre fattori, due di ordine generale cioè la rincorsa dei prezzi delle materie prime e dei rincari energetici di questi ultimi due anni. Abbiamo fatto un conto: da gennaio a dicembre il polietilene è aumentato di circa il 55% e l’energia ha subito un trend sostanzialmente simile. Un trend di crescita che abbiamo dovuto rincorrere, discutendo con i clienti l’andamento dei prezzi. A questo si è aggiunta la procedura fallimentare del consorzio Cura di Faenza, che ha abbandonato i clienti a novembre a prezzi impazziti. Chiudiamo un anno con un fatturato importante e una buona quantità di merce venduta, nel 2022 la domanda di prodotti è tonica anche se, nel secondo semestre, tenderà a diminuire. Nel prossimo semestre la contrazione dei prodotti sul mercato internazionale subirà contraccolpi. C’è una crescita dei prezzi non paragonabile a nessun momento del passato, non prevedibile. Siamo fuori controllo».
Quali sono i mercati che si rivolgono a voi?
«L’Italia vale il 100% dei nostri ricavi, ma nel 2021 abbiamo cominciato a provare i mercati internazionali con Germania e Olanda, con un 5% di fatturato e buone prospettive di crescita. Ma siamo molto influenzati dai fattori geopolitici internazionali». 
Avete ottenuto la certificazione «Plastica Seconda Vita», primo marchio europeo per materiali e manufatti che utilizzano plastica da riciclo. Come è la risposta del mercato?
«Averla ottenuta nel 2020 è stato un grande risultato nell’anno più difficile di tutti, abbiamo avuto un lunghissimo lockdown produttivo, solo adesso abbiamo i primi ritorni. Nel 2021 abbiamo prodotto risultati significativi e ci aspettiamo ottimi ritorni dal punto di vista della sensibilità del mercato in particolare da quelli più attenti a questo settore. Ci troviamo in un settore in cui se l’imballo non ‘tiene’ il prodotto è un problema importante: è un lavoro di medio periodo, di progressiva affermazione. La plastica rigenerata di buona qualità è poca e nell’imballaggio non ci puoi mettere quasi nulla. Le materie prime sono scarse e costose».
Progetti per il futuro?
«Il futuro immediato è trovare un equilibrio nel nostro settore, con una domanda tonica, ma fattori di produzione impazziti. Abbiamo tempi di consegna abbastanza lunghi, ma non possiamo garantire il prezzo finale perché non so fra due mesi quale sarà il costo finale. Stiamo lavorando molto sulle plastiche rigenerate per il settore industriale e sul bio con Novamont: nel 2021 è nata la prima sperimentazione industriale. Stiamo guardando a film di misure importanti per il settore dell’agricoltura. Si potrebbe impiegare per la tecnica agricola della pacciamatura, dove si utilizzano solitamente teli in plastica, che hanno una serie di controindicazioni, la plastica non fa bene alla terra nel lungo periodo e ha un costo per raccolta e smaltimento. Novamont sta lavorando per proporre al mercato lo stesso prodotto ma in bioplastica, così che non debba essere raccolto e smaltito. Lo puoi usare a spessori più sottili, così anche se il costo al chilo è più alto, alla fine il prezzo è uguale con un miglior impatto sulla produzione agricola. Adesso faremo delle prove in campo con gli agricoltori, a Conselice e a Lido di Spina: è un settore promettente, con pochi operatori, ma occorrerà molto lavoro. Il settore è quello dei grandi operatori agricoli e dell’agrindustria».
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