IL TESSITORE DEL VENTO di Guido Tampieri - Le ragioni della luce

Emilia Romagna | 13 Novembre 2023 Blog Settesere
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Guido Tampieri - Dice Netanyahu che «É il tempo della guerra». Lo fa appellandosi al Deuteronomio, come se fosse il Dio di Israele e non la follia degli uomini a volerla. E ti chiedi quando mai in quella terra martoriata è stato il tempo della pace, chi gli darà una chance, chi dei due belligeranti, chi nella comunità internazionale avrà il coraggio della responsabilità. Se si parte dalle ragioni della guerra, che i due contendenti e le fazioni al seguito accampano, si va diritti verso il precipizio. Perché l’odio non porta ragioni, solo altro odio. Mentre se si parte dalle ragioni della pace, che ormai solo il Papa perora, forse uno spiraglio si potrà aprire. Se vuoi la pace prepara la pace, scrive San Paolo. I preparativi di guerra non l’hanno mai preservata. Quando la violenza prende piede, poi si alimenta da sé e tutto diventa maledettamente difficile. Dal 1948 in Palestina è stato un processo ininterrotto. I Paesi arabi hanno cercato di strangolare il nascente Stato di Israele nella culla, dando al conflitto quell’impronta etnico-religiosa che  tuttora perdura. I Palestinesi, sull’altro fronte, sono stati espropriati delle loro case e delle loro terre senz’altra colpa che l’essere nati lì. Della Shoah non sapevano niente. Non dovevano risarcire niente. Non loro. Né colpe hanno quei poveri contadini con quattro pecore e due ulivi cacciati ancor oggi dai coloni.
Con accenti razzisti che non penseresti di trovare in chi ne ha tanto sofferto. Loro non hanno una terra promessa dove andare, non hanno più niente. Andranno raminghi. Forse in Egitto. Se il mar Rosso si aprirà. È di loro che parlo, non dei Paesi arabi che si sono accampati sulle loro disgrazie, non degli islamici tutti e degli islamisti che odiano l’Occidente, non degli accordi di Abramo che regolano i rapporti fra gli Stati ma non danno uno Stato a chi non ce l’ha. Il pensiero va ai 10 milioni di Palestinesi senza qualcosa che somigli a una patria. Dire che la tragedia che si consuma in questi giorni comincia il 7 ottobre non aiuta a capire  perché siamo arrivati a questo punto. L’odio non spunta come un fungo dopo una notte di pioggia. Procede per accumulazione e tanto più è difficile interromperne il corso tanto più è necessario farlo. A meno di pensare davvero che esistano popoli terroristi. Per natura magari.
È vero che la carneficina di civili israeliani perpetrata da Hamas ha rappresentato un cambio di paradigma nel conflitto che non poteva restare senza risposta adeguata ma non ci si può nemmeno fermare a quel momento per immaginare un mondo che sposta verso l’alto l’indice della disumanità sopportabile. Con l’idea che questo sia il solo futuro possibile.
«Est modus in rebus» dicevano i latini. 10.000 civili uccisi alla cieca, 4.000 bambini, 2.000.000 di esseri umani assetati, affamati, non sono «il modo», non sono effetti collaterali. In base a quale speciale statuto Israele pensa di potersi sottrarre al giudizio del mondo se non mostra che la forza della sua democrazia ne orienta i passi verso la giustizia e non verso la vendetta? «Non ha occhi un ebreo? - chiede Shylock ne Il mercante di Venezia di Shakespeare -. Non ha mani, un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate torto, non dovremmo noi vendicarci?».
Perché mai un bambino palestinese non dovrebbe nutrire gli stessi pensieri? Dopo gli accordi di Oslo, quando Hamas non esisteva ancora, Arafat aveva messo al bando la lotta armata e a protestare per le strade c’erano solo dei ragazzi con dei sassi, nemmeno allora si ritenne  sussistessero le condizioni per ottemperare alle decisioni dell’Onu di dare uno Stato anche ai Palestinesi. Per garantire il diritto degli uni si è negato il diritto degli altri. Per una causa giusta si perpetua da 65 anni una condizione ingiusta. Chi sostiene che Gaza rappresentava un embrione dello Stato di Palestina non sa quel che dice. Tutto questo ha generato più lutti e più insicurezza per tutti. Lasciateci almeno pensare che con altre politiche poteva andare altrimenti.
«Terra in cambio di pace» era la parola d’ordine di Rabin, prima ucciso e poi dimenticato. In questi anni è cambiata, in peggio, sia la realtà palestinese che la società israeliana, lontana dall’ispirazione democratica delle origini. Sono stati gli anni di Hamas ma anche di Netanyahu. Entrambi hanno carpito la fiducia dei loro popoli.
La speranza, ora, è che, dopo essersi sostenuti a vicenda, cadano contemporaneamente. E che poco per volta ritrovino spazio i pensieri di pace e di rispetto che ho colto nelle parole di alcuni dei partecipanti alla manifestazione di Genova in ricordo dei deportati ebrei. Così distanti dalle isterie dei pasdaran che hanno occupato la scena mediatica in Italia. Parole che invitano a distinguere, fra i popoli e i governi, fra la politica e la religione. Sempre.
La risorgenza del fenomeno antisemita nel vecchio continente non è correlata direttamente alla questione palestinese né si deve solo alle degenerazioni islamiste. È bene ricordare che gli specialisti nella persecuzione di ebrei é in Europa che hanno coltivato le loro perversioni. Fra coloro  che chiamano bestie tutti i Palestinesi e non distinguono il sentimento di un popolo ferito dagli abomini di chi si è impossessato delle sue speranze c’è gente  imparentata con chi plaudiva alle leggi razziali. Questa sinistra dai molti difetti non l’ha fatto allora né mai. Alle parole della segretaria del Pd si possono muovere osservazioni ma non accuse di ambiguità nel sostegno ai diritti universali comunque e ovunque violati. Le croci uncinate tracciate su una tomba a Vienna o sulla porta di una povera donna accoltellata a Parigi parlano da sole. Il moltiplicarsi di episodi esecrabili non sembra tuttavia configurare in Italia un clima antisemita comparabile ad altri momenti della storia. Né si può addebitare un sentimento antiebraico ai ragazzi che manifestano il loro rifiuto per la strada di morte che ancora una volta indichiamo loro. L’innocenza giovanile sposa sempre la causa del più debole e la compassione è un sentimento che dovremmo coltivare anche da adulti. Li accusano di commuoversi per la sorte di quei bambini, e vien da dire col Sommo poeta «E se non piangi, di che pianger sogli?».
 
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