IL TESSITORE DEL VENTO di Guido Tampieri - Ieri, oggi…e domani?
Guido Tampieri - 10 marzo 1914. Mery Richardson, per la cronaca fascista, squarcia la Venere Rokeby di Velasquez, esposta alla National Gallery, per richiamare l’attenzione sui diritti delle donne. Un gesto sbagliato per una causa giusta. È accaduto tante volte. La differenza dagli episodi che vedono protagonisti i ragazzi di Ultima generazione è che mentre in genere nei giudizi si ha cura di distinguere fra l’atto (biasimevole) e la causa (commendevole) in questo caso viene screditato tutto: gesto, autore e causa.
Quest’ultima, la salvezza della Terra, non certo meno nobile delle altre. E tuttavia considerata alla stregua di un procurato allarme, immotivato, sovversivo dell’ordine economico e sociale e dunque pericoloso. L’ambientalismo, nella rappresentazione di chi lo spregia, non viaggia mai da solo ma sempre accompagnato all’aggettivo «ideologico», che è qui sinonimo di falsificato, nella percezione dei fenomeni e nell’ indicazione dei rimedi. Anche l’ecologia cessa di essere scienza, retrocessa al rango di teoria terrapiattista. Mentre realistico e dunque responsabile sarebbe solamente continuare a fare le cose di sempre. Senza prendere in considerazione correzioni di rotta. Presentate come un ostacolo al benessere planetario.
Così come nemici del progresso, della Patria, dell’impresa, del lavoro, di tutto quel che può venire in mente a dei reazionari in missione per conto degli interessi costituiti e ai loro sicari mediatici, sono «gli ecologisti», vecchi e nuovi, financo bambini. Che i cretini più creativi chiamano gretini. Irridendo quella che credono una moda adolescenziale quando è, invece, prendo a prestito le parole dello scrittore Paolo Giordano, «una battaglia di sopravvivenza esistenziale». Destinata a crescere assieme agli effetti dell’inquinamento e del riscaldamento globale che renderanno via via più difficile l’adattamento alle nuove condizioni suscitando nuove domande di vivibilità della vita.
Con pezzi di futuro inospitale che precipitano sui nostri ragazzi ammonendoli sui rischi di uno sviluppo insensibile ai richiami della ragione non c’è da sorprendersi che le nuove generazioni recalcitrino a farsi rinchiudere in questa gabbietta per criceti nevrotizzati che corrono freneticamente sulla ruota convinti che questa sia la sola vita possibile. Che vogliano dire la loro sul mondo in cui dovranno vivere. Che si interroghino sulla meta e sul viaggio. Che si pongano domande di senso. E manifestino il loro dissenso allorquando la politica e l’economia giocano a mosca cieca coi destini dell’umanità. In forme più civili di ogni altro movimento apparso in questi anni sulla scena pubblica mondiale. Non contraddette dalle manifestazioni di disperata intemperanza pittorica. Sconsiderate ma mai violente. La quantità d’acqua per ripulire i muri imbrattati non è maggiore di quella che si disperde nelle ore più calde per irrigare un campo di mais.
«Oggi imbrattano i muri, domani faranno attentati», sentenzia un giornalista della Verità, in preda alla sindrome di Bibbiano. Si definiscono liberali e garantisti. Chissà su quali libri ha studiato certa gente. Non è l’arte che vogliono sporcare questi ragazzi ma la superficie dell’indifferenza, che si è manifestata più e più volte nella storia col volto di un crimine bestiale. Qui di scandaloso c’è solo la nostra sordità alle loro ragioni. Che assume, a destra, il carattere del rifiuto oscurantista e nell’area progressista, spesso, quello di un paternalismo supponente.
La questione non è, come sostengono gli esponenti di FdI, che anche la destra ami più una Terra pulita che una Terra inquinata, e ci mancherebbe pure, ma che ha finora negato il problema, contestato la sua origine, contrastato i rimedi. La questione è che, con accenti e responsabilità differenti, questa generazione si dimostra incapace di stringere un patto intergenerazionale sul fondamento stesso della vita. La tesi centrale del Capitale di Marx è che una società non muore se prima non ha esaurito le sue potenzialità, se non è pervenuta al massimo del suo sviluppo.
Senza preconizzare né tempi né modelli alternativi, ché il capitalismo, come scrive Giorgio Ruffolo, ha «i secoli contati», diventa tuttavia sempre più evidente la difficoltà di dare risposta a due questioni cruciali: assicurare le condizioni di riproduzione e stabilità del sistema socioeconomico nello spazio e nel tempo. Preservare le conquiste sociali del secolo scorso.
La sua forza è sempre consistita nella capacità di evolvere, di cambiare. Adesso è uno di quei momenti. Il nuovo arriva sempre inaspettato e non è mai il vecchio ad annunciarlo. Avranno la politica e l’economia la capacità di riconoscerlo e accettarlo? È una responsabilità grande. Perché il superamento di questa empasse storica richiede una metamorfosi. È ovvio che la transizione ecologica comporta dei problemi. Cambiare prodotti e modi di produrre ma poi stili di vita e di consumo é una via stretta, anche se è ragionevole pensare che poi si riallargherà. Ma l’alternativa non è fra rischio e assenza di rischio bensì fra differenti rischi.
Sminuire quello di una transizione troppo lenta non è onesto. Il fattore tempo non è una variabile indipendente, è il cuore del problema. Il rischio, diceva Freud, è che i mulini macinino la farina talmente adagio che nel frattempo la gente muore di fame. Il medico pietoso non è quello che per confermare la diagnosi uccide il malato, ma quello che cambia la terapia per salvarlo. Non ricordo più chi l’ha detto, ma era uno che ne capiva.