Emergenza Ucraina, l'arcivescovo Paolo Pezzi: «Vedo angoscia e paura anche tra i russi»

Emilia Romagna | 08 Aprile 2022 Cronaca
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Federico Savini - «Intorno a me in questi giorni vedo spesso smarrimento, incertezza per il futuro, anche angoscia e paura. E poi dolore, soprattutto in coloro che hanno parenti e amici in Ucraina. Grazie a Dio in Russia non c’è uniformazione di giudizio, ma un buon dibattito, a volte un po’ “forte”. Ma, personalmente, quando posso, visitando le parrocchie, aiuto i fedeli a non aver paura di formularsi un giudizio alla luce della fede». Monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca da 15 anni, è probabilmente, tra i romagnoli di origine, la persona che nei terribili giorni della guerra in Ucraina occupa la posizione più delicata in assoluto.
Nato a Russi nel 1960 e ordinato presbitero nel 1990, si recò in Russia per la prima volta nel 1993, dopo un dottorato in teologia pastorale ottenuto con una tesi sui cattolici in Siberia. La sua profonda conoscenza di quel territorio, dove la comunità cattolica non è certo maggioranza della popolazione, ha fatto sì che Paolo Pezzi, appartenente al movimento di Comunione e Liberazione, nel 2006 diventasse rettore del Seminario Maggiore «Maria Regina degli Apostoli» di San Pietroburgo, prima dell’ordinazione ad arcivescovo avvenuta l’anno dopo, su nomina di papa Benedetto XVI.
Della sua ormai lunga esperienza umana e spirituale in Russia Monsignor Pezzi ha peraltro scritto di recente, nel libro La piccola Chiesa nella grande Russia. La mia vita, la mia missione, elaborato con Riccardo Maccioni e uscito da poche settimane per l’editore Ares, ed è facile comprendere la delicatezza della sua posizione in questi giorni agitatissimi per tutto il mondo. Nelle scorse settimane l’arcivescovo di Mosca ha esortato più volte i fedeli, russi e non, a pregare e anche a digiunare con assiduità, nella richiesta di uno stop al conflitto armato. «Preghiera e digiuno continuano ovunque nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nei movimenti ecclesiali - dice Monsignor Pezzi, contattato via mail a Mosca -. In particolare, al termine della Santa Messa recitiamo una preghiera per la pace o l’antifona alla Madonna “Sub Tuum Praesidium”».
Negli ultimi giorni sembra allontanarsi la possibilità di un accordo che metta fine al conflitto. Non è in nostro potere sapere come e quando termineranno gli scontri, ma è chiaro che anche dopo un’eventuale stipula si porrebbe il problema della convivenza tra popoli che si sono combattuti. Lei ha parlato molto di «perdono». Pensa che il perdono possa nascere anche al culmine della conflittualità?
«Il perdono è la strada percorribile per ripartire, sempre, anche nei momenti di maggior conflitto. Anzi, il coraggio del perdono è ancor più necessario nei momenti di maggior conflitto. Se si impara a perdonare anche le più brutte pagine della storia vengono superate. Inoltre, devo dire che il perdono è il contributo specifico che come cristiani possiamo dare».
Questa guerra avrà conseguenze di lungo periodo sugli scenari internazionali. E’ già molto cambiata la prospettiva degli europei, convinti negli ultimi anni di abitare un continente «aperto», pacifico e relativamente uniforme a livello di credenze e valori condivisi. Che destino attende l’Europa nel medio-lungo periodo? Le giovani generazioni riusciranno ad andare oltre le divisioni dei padri?
«È difficile, almeno per me, fare delle previsioni in questo senso. Posso solo dire che quanto prima sapremo andare oltre le divisioni, tanto più rapidamente potremo riallacciare rapporti di amicizia, di interscambio umano, ma anche economico, potremo aprire strade per un’Europa dall’Atlantico agli Urali».
Si parla con una certa insistenza di una possibile visita del Papa a Kiev. Quanto pensa che una figura come Papa Bergoglio sia influente in particolare in Russia, dove ovviamente il credo principale è quello ortodosso?
«Penso che Papa Francesco abbia un’autorevolezza a livello mondiale. Basti pensare agli interventi e alle visite in Africa, in Asia, e in Europa stessa. Certamente il Papa è molto ascoltato anche in Russia. Questo non significa che i russi siano sempre d’accordo con lui, ma certamente è letto e ascoltato».
Venendo invece al suo libro, fin dal titolo sottolinea la presenza numericamente limitata di credenti cattolici in Russia, il che rende la sua una missione particolarmente importante. In questi 15 anni ha visto cambiare la percezione dei russi nei confronti della chiesa Cattolica?
«Direi che oggi la Chiesa Cattolica è più conosciuta per quello che realmente è. Restano pregiudizi, ma nella sostanza la Chiesa Cattolica è accolta in Russia».
Dall’Italia non è semplice comprendere la varietà linguistica e culturale di un Paese come la Russia. Crede che esistano diverse anime di quel popolo? Ultimamente si enfatizza molto la differenza tra i russi di città e quelli delle campagne. Pensa sia corretto?
«Certamente esistono differenze etniche, culturali e linguistiche in Russia, basta ricordare che ci sono oltre centocinquanta etnie, e oltre ottanta lingue. La lingua russa accomuna tutti in generale, ma esistono regioni o territori nella Federazione Russa in cui una lingua locale è più parlata del russo. Un po’, se mi permette, come i dialetti in certe regioni o il tedesco in alcune zone dell’Alto Adige in Italia. Dal punto di vista culturale poi c’è un certo influsso di tradizioni locali, ma, direi, la cultura russa è diffusa ovunque. Non esagererei invece a parlare di differenza culturale o linguistica tra città e campagne».
Tra le pochissime «buone notizie» legate a questa guerra c’è la sincera accoglienza che molti popoli stanno dando ai profughi ucraini. Ma questo evidenzia, purtroppo, che spesso dimentichiamo come molte persone che si sono trasferite in Europa, negli anni scorsi, l’abbiano fatto per ragioni simili a quelle degli ucraini, perché il mondo è pieno di guerre. La Chiesa Cattolica è sempre stata coerente nel ribadire il dovere dell’accoglienza per tutti i profughi. È un momento propizio per sottolineare l’importanza di questo?
«Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che parliamo di uomini, di persone reali, non di pietre e nemmeno di “problemi”. L’accoglienza di queste persone, che hanno tra l’altro un bagaglio di sofferenza e di abbandono non indifferenti, è non solo un dovere, ma un’espressione essenziale della tradizione ebraico-cristiana. Ci sono molte pagine nella Sacra Scrittura che parlano di questo. Voglio solo ricordarne una, presa dalla lettera agli Ebrei (13,1-2), in cui si dice: “L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”».
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