Crisi Afghanistan, il bagnacavallese Roberto Faccani: «Al telefono per salvare la vita ai ‘collaboratori’»

Bassa Romagna | 27 Agosto 2021 Cronaca
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«Da diversi giorni vivo col telefonino in mano. Nel corso delle mie missioni in Afghanistan, ho conosciuto tante persone, tra cui i cosiddetti “collaboratori”, e sono proprio loro che mi contattano per essere aiutati ad uscire dal Paese». Il bagnacavallese Roberto Faccani, dopo decenni di Polizia locale, Protezione civile e Croce Rossa, vista la sua larga esperienza a Herat e Kabul, seppur a 5mila chilometri di distanza, oggi gioca un ruolo chiave per trarre in salvo vite umane dall’inferno talebano. 
Faccani, si aspettava che potesse andare tutto in fumo in pochi giorni?
«Ho dedicato 20 anni a questo straordinario popolo e sono molto toccato da quello che sta succedendo. Sono anche cittadino onorario di Herat e voglio aiutarli ancora. Tanti dicono che due decenni di presenza non sono contati nulla... Non credo, specialmente quando vedo tanti giovani che sfidano i nuovi talebani chiedendo libertà. Soffriranno tanto e per molto, ma sono sicuro che il seme è stato gettato».
Qual era il punto più debole dello stato e delle istituzioni afgane supportati dagli stati occidentali dopo l’11 settembre?
«Forse il limite stava proprio nella mancanza d’identità nazionale, quel collante che avrebbe dovuto tenere assieme tante differenze. Come è capitato col Covid-19, dove sono spuntati virologi come funghi, anche in questo caso vedo apparire numerosi ‘afganologi’... Ma prima di parlare dell’Afghanistan, occorre conoscerlo bene. Occorre conoscere il territorio, la popolazione e i diversi gruppi etnici: Pashtun (il 38%), gli uzbechi, i turkmeni, i tagiki, i Khuci, i Nuristani, i Beluchi, gli Azara, I Brahui, i Qizilbash, i Wakhi, i Farsiwan. Occorre conoscere la differenza tra città e villaggi. Occorre conoscere i governatori, i capi dell’esercito, della polizia, delle carceri, dei tribunali e visitare università, scuole e orfanotrofi. Ma, soprattutto, conoscere le religioni e i loro capi, tra cui i Mullah. Là non c’è  differenza tra stato e religione: lo dimostra l’applicazione della sharia. Mi han sempre detto che i Pashtun, il gruppo etnico maggiore, ha tre valori ben impressi nel Dna: l’ospitalità, il credo e la vendetta... questo la dice lunga. Come pure i talebani non vivevano nelle steppe o nei deserti: erano mescolati alla popolazione, negli uffici pubblici, nelle forze di polizia e nell’esercito».
Cosa la lega all’Afghanistan?
«Ho lavorato 20 anni per la popolazione afgana in tanti progetti per  farla crescere e portare umanità, sostegno agli ospedali, alle scuole, agli orfanotrofi; ho costituito il sistema provinciale di protezione civile a Herat, ho formato la prima unità della polizia stradale e organizzato l’ufficio patenti e la viabilità a Herat dopo le devastazioni del regime talebano. Sono riuscito a organizzare il primo reparto di pompieri, ho fatto corsi alle unità di polizia femminile e ai magistrati addetti al nuovo dipartimento per il contrasto alla violenza di genere. Mi sono occupato anche di far arrivare in Italia dei bimbi che, se fossero rimasti là, non sarebbero mai guariti. Non ricordo più quante volte sono stato in Afghanistan, penso 24 o 25 volte. Ora vedo tanti italiani sensibili alla questione, ma ricordo bene di taluni che mi dicevano… ‘ma cosa vai a fare?’. 
In questi giorni è di nuovo in campo per trarre in salvo i cosiddetti «collaboratori»...
«Nessuno dei nostri soldati, come pure americani, inglesi e turchi, è in grado di abbandonare l’aeroporto per andare a prelevarli. Così tengo i contatti tra loro e le nostre autorità governative nell’unico intento di salvarne il più possibile. Ma vivono un vero e proprio inferno: lo vedo dalle immagini e dai filmati che mi inviano in tempo reale. Migliaia di persone ammassate all’esterno dell’aeroporto nella speranza che qualcuno li faccia entrare per fuggire. Chi percorre le strade che portano allo scalo viene fermato nei chek point talebani. Chi viene riconosciuto come “collaboratore” viene fermato, picchiato e privato dei documenti. Pochi giorni fa, nella calca dell’aeroporto di Kabul, è morta la moglie di una persona che stavamo cercando di far uscire dal Paese. Poi mi hanno spedito la foto di una persona che ha abbandonato un figlio oltre la rete dell’aeroporto, sperando di spedirlo verso una vita migliore. Chi ha compiuto quel gesto, però, ha perso tutto». 
Lei è, per alcune persone che vivono in un altro continente, l’unica speranza di salvezza...
«Mi rendo conto di avere una grave responsabilità nell’indirizzare questi verso la capitale, nascosti nei cartoni o nelle valigie sopra i tetti dei bus, esposti al pericolo di essere individuati anche per le spiate degli altri passeggeri. E’ un incubo: non dormo fino a quando mi comunicano di essere arrivati a Kabul e di essere nascosti in attesa della chiamata dei nostri diplomatici e militari dall’aeroporto. Diverse persone, per fortuna, sono già arrivate in Italia e mi inviano foto: prima in aereo, con i volti tristi, poi a Fiumicino, con i visi sorridenti. Un famoso detto afferma che se salvi una vita salvi il mondo… Spero che, a conti fatti, le vite tratte in salvo siano ben più di una».  

Samuele Staffa
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