Calzaturiero, l'imprenditrice bagnacavallese Emanuela Bacchilega «Puntiamo su qualità, giusto prezzo e filiera italiana»

Bassa Romagna | 19 Luglio 2020 Economia
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«La qualità, al giusto prezzo». Difficile trovare la ricetta giusta per sostenere il distretto calzaturiero locale che da anni soffre la concorrenza straniera. Poi il Civid ha sparigliato tutte le carte sul tavolo. Ma Emanuela Bacchilega, titolare dell'azienda fondata dai genitori a Bagnacavallo poco più di 50 anni fa che oggi conta una cinquantina di dipendenti, non molla la presa e guarda avanti con ottimismo, puntando su ingredienti semplici.

Il Covid ha bloccato tutto il settore e «siamo stati obbligati a chiedere la cassa integrazione per i dipendenti – sottolinea l'imprenditrice - e lo scenario che abbiamo trovato a maggio, al momento della riapertura, era completamente stravolto. Siamo ripartiti, anche se c'è qualche lavoratore ancora in cassa integrazione. Il periodo di lockdown ha congelato completamente le vendite della collezione estiva e ritardato la produzione di quella invernale. Senza dimenticare che, quando abbiamo riaperto il nostro stabilimenti, i negozi erano ancora chiusi. Le premesse erano drammatiche. Tuttavia, ora abbiamo ristabilito i rapporti con i clienti e recuperato, anche se non del tutto, il terreno perduto. Voglio essere ottimista – aggiunge Bacchilega - e speriamo non vi siano altre chiusure forzate».

Da anni, oramai, il tanto decantato Made in Italy ha dovuto subire una concorrenza spietata di altri paesi dove si privilegiano le produzioni a basso costo a scapito della qualità e, alla fine dei conti, della salubrità dei prodotti. «Ho ricevuto diverse mail - dice la titolare - di clienti che chiedevano se nelle nostre calzature erano utilizzati alcuni materiali che, in alcuni casi, avevano arrecato danni alla salute e compromesso la funzionalità del piede». La filiera italiana, che va dalle materie prime al prodotto finale, è una garanzia. Ma spesso il marchio «Made in Italy» finisce per abbracciare produzioni straniere che vengono commercializzate da aziende italiane: basta mettere il tricolore sulla scatola. «Con la delocalizzazione della produzione – aggiunge l'imprenditrice – si rischia di perdere un patrimonio di conoscenze difficile da recuperare in futuro».

Difficile trovare una ricetta per invertire la rotta, «ma si potrebbe promuovere l'etica delle aziende – spiega Emanuela Bacchilega - e della filiera italiana che, tutto sommato, è una importante tutela per il consumatore finale. Noi produttori abbiamo il compito di valorizzare le tradizioni e, al tempo stesso, innovare i prodotti per creare un giusto equilibrio tra prezzo e qualità. E ai consumatori va trasmessa l'importanza del prodotto ben fatto: le grandi catene hanno introdotto capi molto economici che vengono utilizzati poche volte prima di 'disintegrarsi'. Un'abitudine che, tutto sommato, penalizza le tasche e lo benessere dei clienti, oltre a produrre enormi quantità di rifiuti. Meglio indossare un capo di qualità qualche volta in più, che utilizzarlo due volte per poi buttarlo. Noi, ad esempio, privilegiamo il riciclo di materie prime di qualità, dalle plastiche ai tessuti, per i nostri prodotti».

Poi servono regole più chiare per venir fuori dal pantano della burocrazia. «Meglio due norme chiare – conclude Emanuela Bacchilega – di venti decreti: le aziende potrebbero perdersi meno nell'amministrazione e dedicarsi di più alla produzione. Il lavoro sarebbe più sicuro e i clienti, da parte loro, potrebbero avere prezzi più vantaggiosi». (samuele staffa)

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