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Afghanistan, il bagnacavallese Faccani: «Rischiamo disastro umanitario»

Bassa Romagna | 14 Novembre 2021 Mappamondo
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Barbara Gnisci

Sono tre o quattro al giorno, anche di notte, le telefonate che Roberto Faccani, di Bagnacavallo, riceve dai collaboratori dell’Afghanistan, da coloro i quali hanno lavorato per le organizzazioni statali e organizzative, che ora vivono nascosti. Tutti chiedono la stessa cosa: aiuto per uscire dal Paese perché sono in pericolo di vita: «Si tratta di persone che ho conosciuto durante le mie 25 missioni nel Paese a partire dal 2001 come membro della Cooperazione civile militare, delle Forze Armate e della Protezione civile. Tra il 2007 e il 2009 ho addestrato il primo contingente di Polizia stradale. All’epoca, da zero erano passati ad avere nelle strade tantissime macchine e avevano bisogno di mettere in atto un sistema di controllo efficiente e sicuro. Ho tenuto corsi anche con la Polizia carceraria, con la Protezione civile e con i Vigili del fuoco. Nel tempo sono rimasto uno dei pochi punti di riferimento per molti di loro».

Le voci che si mettono in contatto con Roberto Faccani riportano storie di tragedie e disperazione: «La settimana scorsa sono riuscito a far attraversare il confine con il Pakistan a una signora di Herat che aveva messo su una cooperativa sociale tutta al femminile. La situazione delle donne in Afghanistan è molto difficile, più di quanto si possa immaginare. Molte di loro sono giovani vedove con figli. Questa signora aveva dato lavoro a molte di loro in vari negozi, come sartorie e panetterie, ed è bastato che, durante un sopralluogo, i talebani trovassero un vestito all’occidentale per distruggere tutto. Questa donna, con al seguito tre figlie, è riuscita ad attraversare il confine dopo vari tentativi e dopo essere stata frustata a sangue insieme alle sue bambine. Ora sto cercando di farla emigrare in Canada, paese che aveva sostenuto il suo progetto».

Donne perseguitate per aver aiutato altre donne: «Anni fa erano venute da noi tre donne giudici che avevano aderito a un progetto di contrasto alla violenza di genere organizzato dalla regione Emilia Romagna. Insieme a loro erano giunte anche alcune dottoresse che erano state istruite a riconoscere le violenze sui corpi secondo le indicazioni dell’Ausl. Poi erano tornate in Afghanistan dove avevano messo in pratica quanto imparato da noi contrastando le tradizioni del loro sistema tribale. Ora quelle donne sono in pericolo. Tutti gli uomini che avevano condannato per violenza sono stati liberati e loro sono in cima alla lista delle persone da perseguitare e uccidere. Due di loro sono riuscito a mandarle in Iran, ma di alcune non ho più notizie».

L’attentato all’aeroporto di Kabul di fine agosto ha segnato tante vite: «Molte famiglie erano state inviate all’aeroporto, scelta che poi si è rivelata tragica. Ricordo che quel giorno avevo indirizzato alcune persone tramite whatsapp in luoghi sicuri. Tra di loro c’era un uomo paralizzato, che in sedia a rotelle aveva impiegato 4 o 5 giorni a raggiungere l’aeroporto. Aveva istituito un servizio di assistenza ai disabili, e anche lì i talebani hanno spazzato via tutto. Ed essendo sciita, lui è doppiamente ricercato. In Afghanistan, qualsiasi cosa, anche buona, che è stata fatta in collegamento con l’Occidente, è da distruggere».

La situazione diventa sempre più allarmante: «Sta arrivando l’inverno, fa freddo, non c’è cibo e non ci sono più soldi liquidi. Anche se da noi se ne parla sempre meno, si teme un disastro umanitario».

Intanto è stato appena firmato un accordo tra il Ministero degli Interni, l’Arci, la Caritas e le Chiese Valdesi per un corridoio umanitario che porterà in Italia 1200 profughi: «Anche se può sembrare un intervento tardivo, in realtà è un ottimo risultato e si aggiungono a quei 4900 che sono già arrivati in agosto. L’evacuazione è possibile grazie agli accordi stretti con il Pakistan e l’Iran. Sono tutte situazioni molto difficili, perché la maggior parte di queste persone sono senza documenti. Per loro non sarà facile ricominciare, anche se molti di loro sanno come siamo, come ragioniamo, perché hanno lavorato con noi. Si tratta di medici, avvocati, ingegneri, che non potranno esercitare qui le loro professioni, almeno non così facilmente e da subito. Il loro futuro sarà incerto».

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