Eva Robin's al Masini in un monologo dissacrante di Copi

Faenza | 21 Gennaio 2017 Cultura
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Elena Nencini
Spiritosa, ironica, ambigua, - ma neanche troppo - oggi Eva Robin’s, bolognese, uno dei primi transgender della televisione italiana, sarà al teatro Masini sabato 21 (ore 21) con Il frigo di Copi, regia di Andrea Adriatico. Un monologo dove la protagonista, una ex modella sul viale del tramonto, si ritrova in salotto un frigorifero. E’ l’occasione per dare voce a tanti personaggi, per parlare di sessi indefiniti e di solitudine in una girandola vorticosa di personaggi, di humour, di fobie e angosce.
Una storia ideale per la Robin’s che confessa: «con il teatro ho placato questa voglia di cambiamenti la mia identità così può essere multipla. Grazie al teatro che mi ha salvato dalla pazzia».
Quale dei personaggi in scena le piace di più?
«La madre, perché è cinica, è una creatura superba e riprovevole in quanto madre. Dice delle cose che ritengo sublimi e vicine alla mia natura (risatina). È meglio stendere un velo pietoso. Venite a teatro e lo scoprirete».
Conosceva Copi prima di recitare in questo spettacolo?
«Copi lo mastichiamo da dodici anni. La prima messinscena è del 2005: è stato il regista Andrea Adriatico ad educarmi alla conoscenza di Copi. poi abbiamo fatto L’omosessuale. Il suo linguaggio è oltre, inaudito, grottesco. E’ un po’ quel che si pensa e che non si dice, che ti fa sorridere amaramente. Le cose che non si dicono mai nei salotti. E’ quello mi ha attirato del testo: Andrea me lo aveva dato da leggere e poi era andato in vacanza. Quando è tornato avevo già metabolizzato il testo. Mi faceva impazzire».
Come mai lavora da molti anni con Andrea Adriatico?
«Mi sono formata con lui, è il mio Pigmalione: mi ha iniziata al teatro dopo la disastrosa esperienza della trasmissione televisiva Primadonna (spin off di Non è la Rai di cui Eva era la conduttrice nda), ne uscii malconcia. Lui mi riabilitò, proponendomi nel 1993 La voce umana di Cocteau per il Festival di  Santarcangelo. Alessandro Benvenuti lo vide e mi offrì una parte in Belle al bar. Continuo a lavorare con Adriatico perché mi propone cose molto stimolanti e con lui  riesco a fare l’attrice».
Pensava da bambino di fare l’attrice?
«Sono cresciuta studiando in un collegio religioso che aveva un teatrino in disuso, sentivo la polvere del palcoscenico, i profumi, l’atmosfera. A 7 anni avevo una scena, vestita da donna, nel secondo atto di Bohème. Sono stata allevata con il canto e il ballo: al collegio mi istruirono per una canzoncina da portare a Loreto per i bambini handicappati: cantavo “mangio le chicche nel bidet”, una canzone molto trasgressiva per l’epoca».
Cosa rappresenta l’ironia nella sua vita?
«È un sostegno per addolcire le brutture della vita, del quotidiano. Serve ad abbattere le meschinità, le tragedie e a far vedere un lato della vita che fa ridere. Credo di essere proprio dotata, è una delle mie qualità».
Il tema di «Il Frigo» è la solitudine. Che ne pensa?
«La solitudine è una scelta, io ci convivo piuttosto bene. Più di due o tre persone mi creano subbuglio, a parte che non so dove farli sedere. Con gli anni mi sono ‘orsita’ e la mia è una casa impraticabile, una sorta di scenografia, dove tutto è appoggiato. Ho eliminato il divano perchè troppo borghese, ma ho delle seggioline e una poltrona per me. É tutto in bilico: ‘non ti appoggiare lì’, ‘stai attento là’. Non è una casa ma un’installazione. Vivo molta sola, ceno con un vassoio davanti alla televisione che è la mia finestra sul mondo. A meno che non ci sia qualche randagio che arriva a Bologna e ha bisogno di dormire per qualche notte. Gli do una stanza fredda così resta poco. La mia compagnia sono i miei gatti, dei marziani come la padrona».
Il suo rapporto con la televisione oggi è quasi inesistente. Come mai?
«Non faccio nulla per finire in tv, ci vado se me lo chiede la casa di produzione. Ultimamente mi avevano proposto L’Isola dei famosi, ma gli ho detto “Non sono in grado di litigare per una vongola” e ho declinato l’invito. La televisione è un male necessario, ma vai e devi fare baruffa. Il teatro invece ti sottrae allo zoom dell’incontro ravvicinato del tempo, delle rughe e sei meno affannata».
Dopo una vita trasgressiva le interessa cosa pensa di lei la gente?
«La gente mi interessa a livello didattico. Osservo molto, non guardo vedo. Sto in mezzo alla gente, per rappresentarla nelle pièces. Adotto i mezzi pubblici,  vado in treno, in autobus, in metro. Cammino, mi confronto con entusiasmo con gli sguardi di tutti. Mi piace se si complimentano, s emi chiedono: è mezzo di misura di quanto posso crescere ancora».

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