Foreign Fighters, la parola a Basel (centro islamico): "Sono persone disperate e di passaggio"

Ravenna | 13 Gennaio 2017 Cronaca
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«Ravenna centro di reclutamento dello stato islamico in Italia? L’affermazione, anche se può non sembrare, è quanto di più lontano dalla realtà». Ahmed Basel, ex presidente del centro islamico e oggi portavoce, smentisce la notizia secondo cui su 87 combattenti stranieri arruolati in Italia, ben il 10% sarebbe partito da Ravenna. Basel ha spiegato che molti dei ragazzi combattenti morti in nome della guerra santa sono solo passati da Ravenna e nulla hanno a che fare con la comunità musulmana. Qualcuno, come Marouan Mathlouthi, il giovane espulso nei giorni scorsi dal Ministero dopo un’indagine di Polizia e Guardia di Finanza, lo ha anche conosciuto: in passato aveva frequentato la moschea, ma poi la sua vita ha preso una piega diversa e, come tanti, si è trovato a fare i conti con un disagio sociale crescente che «lo ha portato sulla cattiva strada». Basel, cosa pensa di quello che si dice, ovvero che dei combattenti partiti dall’Italia tanti fossero ravennati? «La verità è che non sono dati veritieri. Più di una volta ho contestato questo aspetto: si tratta solo di passaggi che hanno messo in cattiva luce la città di Ravenna e la comunità musulmana, sottoponendole ad attacchi ingiustificati. Il primo arresto in Italia, quello dello jihadista mancato, è stato quello di un ragazzo che si era solo trovato a passare dalla nostra città: aveva partecipato ad una delle giornate che organizziamo ormai da otto edizioni, dedicate al dialogo e alla riflessione, ma era stato definito un ravennate integrato da anni. Oggi Ravenna viene definita capitale dei foreign fighters, ma lo trovo ingiusto. A partire saranno stati in tre o quattro, non di più». L’ultimo ragazzo espulso, Marouan Mathlouthi, invece viveva qua... «Sì, è stato espulso per una frase pubblicata su Facebook. Viveva a Ravenna da tempo insieme alla sua famiglia, che continua a frequentare la moschea. Il padre lo portava quando era piccolo ma, una volta cresciuto, non è più venuto. Come tanti giovani si è trovato ad affrontare la vita e ha fatto scelte sbagliate. Certo però che bisogna stare attenti ad incolpare qualcuno per due frasi scritte su Internet, anche perchè nel suo caso non mi pare fossero così incriminanti. Non si può, per una semplice frase, magari scritta con avventatezza, incolpare qualcuno e rovinare tante vite. La sua famiglia vive qui da anni ed è stato un trauma per tutti». Secondo lei, le scelte sbagliate commesse da questi ragazzi sono frutto di un’integrazione fallita? «Io credo che se analizziamo i ragazzi coinvolti nei reclutamenti troviamo giovani in difficoltà: dobbiamo guardare in faccia alla realtà e ammettere che siamo in presenza di un forte disagio sociale, di una crisi economica che coinvolge anche i giovani della comunità musulmana. I frequentatori della moschea non sono più gli stessi e subiscono, al pari dei ragazzi italiani, il crollo degli ideali, di idee e di principi. Tutti vogliono avere soldi facili e ritengono che l’aspetto economico sia fondamentale per la loro vita. Chi parte e pensa di poter risolvere i propri problemi con l’arruolamento vive un forte disagio sociale totale. Sono ragazzi che hanno precedenti per droga o furto, giovani non inseriti, ma qui non c’entra l’integrazione: semplicemente sono vittime di un disagio globale che ‘attraversa’ tutti. Prendiamo Noussair Louati, il tunisino arrestato lo scorso anno, non frequentava la nostra comunità e conduceva una vita sbandata, aveva brutti giri». Avete intrapreso azioni, come comunità, per affrontare il fenomeno? «Ovviamente ci stiamo confrontando al nostro interno e non solo: vivendo in questa società e in questo paese la sicurezza ci interessa. Il terrorismo non sceglie una parte o l’altra e quando capita qualcosa di male ci vanno di mezzo tutti. Anche noi ne siamo consapevoli e cerchiamo di trovare soluzioni. Lavoriamo sull’informazione, soprattutto con i giovani, e tentiamo di coinvolgerli con approcci diversi. Siamo anche attivi verso l’esterno e da poco abbiamo organizzato una marcia per la pace insieme al vescovo e ad altre realtà religiose, proprio perchè sappiamo che la pace è un obiettivo da raggiungere. Servono tempo e lavoro, dialogo e convivenza per uscire dall’io ed entrare nel noi».
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