Cia: «Allevare conigli è ormai un’impresa»
Gli allevatori di conigli non ce la fanno più. Da oltre due anni cercano di sopportare le criticità del settore cunicolo che si fanno sempre più pesanti. La causa principale è la volatilità dei prezzi, che sembra andare oltre le regole della domanda e dell’offerta. Volatilità che oscilla fra prezzi al di sotto dei costi di produzione e addirittura assenza di quotazioni per il mancato raggiungimento di accordi.
Nella nostra provincia si trovano diversi allevamenti e alcuni molto rilevanti, come quelli dei fratelli Bighini, fra Reda e Brisighella. Complessivamente contano 120/130mila conigli, allevati in 9/10 mila mq di capannoni, con una produzione di circa 6mila conigli a settimana e una forza lavoro intorno a 14 persone fra familiari e dipendenti. E’ Angelo, che da 45 anni alleva conigli, a illustrarci la situazione del comparto.
«Solo per fare l’esempio più recente, per 9 settimane, fin verso il 26 agosto, abbiamo avuto l’assenza di quotazioni in quanto non si raggiungeva un accordo sul prezzo fra allevatori e trasformatori nell’ambito del Cun, l’organismo nazionale che stabilisce il prezzo dei conigli. Così la carne di coniglio è stata venduta in un mercato che si è autoregolato con cifre irrisorie per gli allevatori. Abbiamo percepito per un lungo periodo circa un euro e trenta al kg a fronte di un costo di produzione di circa un euro e ottanta al kg. In questi giorni l’accordo raggiunto riconosce agli allevatori un euro e 53 centesimi, meglio di prima, ma pur sempre al di sotto dei costi di produzione».
Cosa determina questa situazione?
«Incide pesantemente su tutto questo il massiccio arrivo di carne di coniglio in particolare dalla Francia e dall’Ungheria, con prezzi volutamente bassi, carne che così si mescola e si confonde nei negozi con quella italiana e il consumatore non lo sa. Non c’è etichetta di origine per la carne di coniglio e in ogni caso la carne di un coniglio nato e allevato in Francia o in Ungheria - e solo lavorato in Italia per la vendita - risulta ‘prodotto italiano’. Se noi arriviamo al confine con i nostri tir di conigli, loro ce li rimandano indietro».
Quali azioni sollecitate per il comparto?
«Il nostro appello è quello di inserire nella normativa europea l’obbligo di etichettatura di origine per la carne di coniglio, oltre a quello di allevamento e macellazione, così come accade per le altri carni suine, ovicaprine e pollame. La Regione Emilia-Romagna sta lavorando alla stesura di una proposta di emendamento del Regolamento Ue 1169/2011, regolamento che prevede dal 1° aprile 2015 l’obbligo di indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza per le carni suine, ovicaprine e pollame (fresche, refrigerate o congelate) e che non contempla le carni cunicole. La proposta sarà sottoposta al Mipaaf e speriamo che il Ministro Martina porti l’istanza alla Ue. La tracciabilità e la trasparenza del mercato tutelano gli allevamenti, gli allevatori e i consumatori, che devono sapere cosa acquistano al banco della spesa, devono scegliere in maniera consapevole. Il prodotto italiano è sottoposto a controlli e disciplinari molto rigidi. Le carni straniere provengono da Paesi dove non sappiamo che regole vi siano».
I tempi saranno lunghi con questo iter. Perché non è contemplata la carne di coniglio in questo Regolamento europeo?
«Immagino sia dovuto al fatto che il cunicolo è un comparto di nicchia. Carne di pollame ne mangiamo oltre 20 kg pro-capite all’anno, di carne di coniglio 3 o 4. Per la tempistica immagino proprio che i tempi saranno lunghi ma il nostro settore non ce la fa più ed è un problema per tutta la filiera. I prezzi sono sempre oscillati e c’è sempre stato un periodo in cui erano veramente bassi. Fino a un paio d’anni fa dovevamo far fronte a 2/3 mesi critici su 12, ma da troppo tempo accade il contrario... Con questo andamento ci rimettiamo dai 10 ai 15 mila euro mensili. Ci sono colleghi in giro per l’Italia che mi stanno dicendo che a dicembre smettono di fare gli accoppiamenti e ciò significa che a marzo non ci saranno più gli allevamenti... se andiamo avanti così la cunicoltura italiana è destinata a sparire».