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Sandro Bassi - Ha suscitato malumori e «sospetti» la mancata consegna dello studio commissionato dalla Regione in seguito alla richiesta della cava Saint Gobain di Borgo Rivola di ampliare la propria area di estrazione. I termini prefissati per la consegna del documento - già tacciato dagli ambientalisti di essere uno strumento «dilatorio» per non prendere decisioni avverse alla cava stessa - sono ormai scaduti, ma risulta dalle parole di Antonio Venturi, presidente dell’Ente Parchi e Biodiversità in Romagna (ente di cui il Parco della Vena del Gesso è elemento centrale) che «una prima bozza era pronta attorno al 10 agosto», poi i tecnici del gruppo di analisi avrebbero chiesto una proroga per effettuare non meglio precisate modifiche e/o integrazioni prima di consegnarla ufficialmente in Regione. I tecnici incaricati, ricordiamolo, sono della ravennate Servin per quanto riguarda logistica e cubature e ambiente, in collaborazione con lo studio bolognese Silva per quanto concerne l’impatto su flora e vegetazione e con la forlivese Sterna per quello sulla fauna. Il gruppo di lavoro che dovrà esaminare i risultati assieme alla Regione è composto da Provincia, Unione dei Comuni, Arpae, Protezione Civile ed Ente Parchi e Biodiversità Romagna.
«A questo punto gli enti locali, Comuni e Provincia, sono evidentemente inadempienti - spiega Piero Lucci della Federazione Speleologica regionale che si è sempre opposta all’ampliamento della cava - perché se da un lato è ovvio che la cava parli pro domo sua, dall’altro non è concepibile che gli enti lascino sempre fare. Mi riferisco soprattutto alla discrepanza fra quanto risulta alla Provincia e cioè che cinque anni fa fossero presenti ancora oltre 3 milioni e mezzo di metri cubi di gesso belli e pronti nell’area di cava mentre la ditta parla di meno di un milione di metri cubi, chiedendo quindi, oggi, di espandersi. In ogni caso si verrebbe meno agli accordi, sottoscritti da ambo le parti, che prevedono il limite, non superabile, di 4 milioni e mezzo di metri cubi, limite che peraltro consente alla cava di lavorare fino al 2032 senza ulteriore espansione».
Espansione che non potrebbe che riguardare l’area protetta dal circostante Parco, con rupi, boschi di quercia, macchia mediterranea, tutto soggetto a tutela per una serie di strumenti vincolistici. Quali? «Un’infinità - snocciola Lucci - a partire dalla direttiva Cee “Habitat” del 1992 cui si aggiungono i vincoli paesaggistici del 1975 ribaditi nel 2004, la presenza di grotte e la loro tutela ai sensi di legge, l’istituzione della Vena a “geosito regionale” e naturalmente l’esistenza del Parco fin dal 2005».
Altra spina del fianco è la richiesta di riconoscimento Unesco della Vena come «patrimonio mondiale dell’umanità», riconoscimento che per ambientalisti e speleologi sarebbe inevitabilmente compromesso da un ampliamento della cava, mentre per i sindaci del territorio non sarebbe un problema. «Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca - ribadisce la Federazione - e la distruzione di un bene naturale che il Parco invece deve tutelare si ripercuoterà sulla dissennata latitanza degli enti locali stessi».
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