Ravenna, il primario di Pediatria: «Non sottovalutiamo l'impatto psicologico della pandemia»

Romagna | 09 Aprile 2021 Cronaca
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Silvia Manzani
«I ricoveri per problemi della sfera emotiva sono frequenti, soprattutto negli ultimi mesi. Circa un terzo di quelli settimanali appartiene a questa tipologia di problemi». Federico Marchetti, primario del reparto di Pediatria dell’ospedale di Ravenna, ha ben presente l’impatto della pandemia sulla psiche di bambini e ragazzi. 
Dottore, quando è capitato di ricoverare bambini e adolescenti per problemi di natura psicologica-psichica, in che misura quei problemi erano legati a pandemia, restrizioni, isolamento?
«I motivi non sono oggettivabili per una causa specifica ma è chiaro e noto che sono legati alle restrizioni, all’assenza scolastica, sportiva, alle paure, a tutto quanto comporta una rottura a volte drammatica delle relazioni sociali. Si tratta spesso di giovani adolescenti (soprattutto ragazze) che sono già seguite per problematiche specifiche e che, come sappiamo, in momenti di difficoltà ricadono con una possibile gravità dei sintomi, che richiede in casi estremi il ricovero, spesso per problemi della condotta alimentare».
Le problematiche di questo tipo arrivano anche in pronto soccorso pediatrico? In generale qual è il grado di conoscenza territoriale sull’esistenza delle problematiche stanno vivendo i bambini e gli adolescenti?
«Il ricovero è solo la punta dell’iceberg. Quotidianamente i pediatri di famiglia, i neuropsichiatri infantili, noi in pronto soccorso, i servizi sociali, i Centri per le famiglie si trovano ad affrontare quello che è noto a livello nazionale ed internazionale. Non ci sono solo gli studi pubblicati (ad esempio dall’Istituto superiore di Sanità) che lo documentano. C’è soprattutto una testimonianza quotidiana che parte dai genitori. Giorno dopo giorno, emerge sempre più drammaticamente la realtà della pandemia e dei gravi danni alla salute mentale di bambini e di adolescenti che questa comporta (sintomi somatici, paura di ammalarsi, ridotta concentrazione, umore deflesso, mancanza di energia, rabbia e aggressività, dipendenza dai social, sino agli estremi di disturbi psichiatrici); danni che potrebbero durare per anni qualora non si possa prevedere  una rapida e reale presa in carico a livello preventivo e quando necessario terapeutico.  Poi è chiaro che esiste anche un ambito forte di resilienza, che riesce a fare elaborare ai bambini e ai ragazzi valori forti fatti di solidarietà, di rafforzamento degli affetti, di valorizzazione della bellezza del “nido” familiare. Ma non può durare a lungo». 
Lei, in generale, come pediatra è preoccupato delle ripercussioni emotive del periodo su bambini e adolescenti?
«Si, lo sono e dall’inizio della pandemia. Ogni giorno che vedo i bambini e ragazzi in ospedale per svariati motivi cerco di cogliere dai loro sguardi sopra la mascherina i segnali positivi che nascono dalle loro emozioni. Si stanno rafforzando, anche negli operativi sanitari, degli aspetti emozionali che ci fanno essere migliori. Si stanno concretizzando nuove metodologie di lavoro congiunte e fruttuose tra tutto il personale medico e socio-sanitario che si occupa della salute dell’infanzia e adolescenza (ad esempio tra pediatri, psicologi e neuropsichiatri). Ma un livello personale o di gruppi di professionisti che si basano sulla migliore interazione possibile, sulla positività, sull’ottimismo non bastano. In questo momento storico sottovalutare l’impatto del Covid-19 tra i più giovani, in una situazione già molto critica in termini di personale, servizi e organizzazione assistenziale per i problemi neuropsichiatrici dell’infanzia e adolescenza, rischia di trasformare un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo in una crisi dei diritti delle bambine e dei bambini e delle ragazze e dei ragazzi; è necessario, senza perdere ulteriore tempo, definire interventi capaci di mitigare il più possibile tutti gli effetti negativi fin qui riscontrati e quelli, ad oggi, solo ipotizzabili. Lo sforzo collettivo deve prevedere scelte di indirizzo chiaro che mettano la salute sia fisica che mentale dell’infanzia e dell’adolescenza al centro delle politiche socio-sanitarie del paese e dei singoli territori, coinvolgendo i neuropsichiatri infantili, gli psicologi, i servizi educativi e quelli sociali, il terzo settore, oltre ai pediatri. Programmazione, cambio di passo, rapidità decisionale, significato della rete. Mai tirarsi indietro. Se non ora quando?»
Giusto un anno fa, su «Medico e bambino», lei pubblicava un interessante articolo sulle conseguenze della pandemia sull'infanzia. A distanza di un anno, che cosa sappiamo di più di come stanno i nostri ragazzi?
«Ho riletto quello che avevo scritto nell’aprile del 2020 (eravamo agli inizi della pandemia). Mi ha colpito molto il rivedersi in una programmazione di semplici idee che già un anno fa stavano affiorando e con forza. Le previsioni in termini di preoccupazioni per quella che abbiamo chiamato “pandemia secondaria” erano tutte giustificate. Le vorrei riportare come progettualità, perché il lavoro previsto allora come un auspicio ora è un un dovere. Dicevamo che molti organismi e molte associazioni si erano già mossi con delle richieste formali rivolte alle istituzioni politiche, con la definizione di alcuni punti prioritari di intervento, molto concreti. Ad esempio l’Alleanza per l’infanzia chiedeva e chiede che a ogni livello (nazionale, regionale e locale) venga adottata una doppia logica di intervento, che guardi all’immediato, ma nel contempo si ponga anche obiettivi di medio termine. Essa dovrebbe prevedere un rafforzamento dell’intervento pubblico lungo alcune linee di azione: sostegno economico alle famiglie con figli (ci sono  i primi segnali positivi in questo senso); sostegno al sistema integrato di educazione e istruzione per i bambini dalla nascita ai sei anni (le traiettorie della prima infanzia sono determinanti per il futuro); sostegno al sistema scolastico, anche in un’ottica di maggiore inclusione e supporto degli studenti appartenenti ai gruppi più vulnerabili e per diversi motivi (economica, sociale, con disabilità e bisogni educativi speciali); rafforzamento del sistema integrato di servizi socio-educativi e socio-assistenziali a livello locale; rafforzamento delle misure di conciliazione tra famiglia e lavoro. Si tratta di interventi che hanno da sempre grande rilievo, ma che in questo momento sono ancora più prioritari».
Voi pediatri come vi potete porre rispetto all’avanzare di quelle istanze?
«A noi, come comunità di pediatri e come singoli cittadini, compete di agire come sentinelle delle singole situazioni con maggiore difficoltà e disagio, a partire dai bambini fragili, più vulnerabili, per diverse cause. Non esiste più una dimensione strettamente sanitaria del nostro lavoro, ma socio-sanitaria e territoriale, caso per caso, che ci deve vedere da subito protagonisti con ragionevolezza e con impegno concreto. C’è un ultimo aspetto strettamente connesso ai punti precedenti che deve essere molto chiaro. Non esistono, in questo momento, decisioni giuste o sbagliate e le polemiche non costruttive servono a poco. È chiaro che le restrizioni hanno un grande significato per la ripresa della intera collettività. Quello che si chiede è che i bisogni dei bambini e degli adolescenti andrebbero tenuti in considerazione in ogni dibattito/decisione di adozione di misure restrittive. A volte sarebbe davvero utile partire anche dalle parole e dai bisogni riportati direttamente dai bambini e dai ragazzi. Li sanno esprime in alcuni casi con una lucidità e consapevolezza che può positivamente sorprenderci».
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