Paolo Rossi alla sua sesta volta con Molière al teatro di Faenza
Elena Nencini
Istrionico come sempre a 65 anni Paolo Rossi torna sul palco pieno di carica con altri 8 attori e due musicisti per Il Re anarchico e i fuorilegge di Versailles, sabato 1 febbraio (ore 21) al Teatro Masini di Faenza, in uno spettacolo in cui è regista, autore e interprete, o come dice lui è il «capocomico».
Una scatenata pièce sul conflitto tra potere e fuorilegge, intesi come coloro che vivono ai margini della strada e non hanno voce, in bilico tra la scena e la vita, tra il teatro e il potere.
Lo spettacolo racconta la straordinaria visione teatrale di un autore-attore, maestro dell’improvvisazione, sempre in bilico tra il dentro e il fuori scena, tra il personaggio, l’attore e la persona.
Paolo Rossi, capocomico per eccellenza, dirige una straordinaria compagnia di attori e musicisti che agiranno con grande professionalità, grazie a un’improvvisazione rigorosa, rendendo lo spettacolo nuovo ogni sera.
Il re anarchico e i fuorilegge di Versailles è il racconto di un sogno, attraverso cui la compagnia arriva finalmente a destinazione, è un varietà onirico di diversi numeri e di diversi livelli di espressioni artistiche, che spaziano dalla prosa alla musica.
Un re anarchico non è un ossimoro?
«Assolutamente si. Ci sarebbe da raccontare una trama che si sviluppa in maniera differente ogni sera, dove un anarchico prende il posto del re. Ma del resto il Re Sole era abbastanza anarcoide, fu lui a inventare un termine per i giardini di Versailles che ‘erano realizzati secondo le regole del caos’. Quando ti trovi davanti a un ossimoro non hai una serie di rimandi, ma si crea un’atmosfera particolarmente visionaria».
La visionarietà è una caratteristica del suo modo di lavorare?
«Soprattutto una caratteristica mia, fin dagli inizi, se no non si spiegherebbe nei fatti come io abbia debuttato. Per alcuni anni la satira come bersaglio aveva Berlusconi, io ne parlavo 7 anni prima. Ho debuttato con la Commedia da due lire che parlava di tangentopoli qualche giorno prima che scoppiasse lo scandalo e potrei dirne altre. Alle volte ci azzecchi alle volte no. Non credo che la mia strada sia rincorrere la cronaca. Soprattutto in quest’epoca: alla classe intellettuale io appartengo come sguattero, fui sospeso dall’Accademia di teatro perché avevo accettato un lavoro, ma avevo bisogno di soldi. La classe intellettuale è una Cassandra muta, non conta molto. Noi, nel popolare, invece offriamo una visione diversa del mondo».
Autore, regista, protagonista qual è la parte più difficile e quella più divertente?
«In realtà io credo che questi tre ruoli rientrino in quello di capocomico non li vedo divisi in tre. Il capocomico considera la compagnia come un carro mercantile, ed ha la responsabilità di portarla dalla Tunisia a Versailles, esercitando clima, regole. Se poi non funziona è contemplato l’ammutinamento. Ma finora non è successo».
Com’è il suo protagonista, una sorta di Robin Hood?
«Non c’è un protagonista, io sono il regista in scena in qualche modo. È una riflessione sulla condizione dell’attore oggi in Italia, tanto che lo stesso re detta le regole di approccio allo spettacolo e al teatro, quelle che una volta si chiamavano note di regia: “Vada come vada, per il teatrante la vita è stare sul palco, tutto il resto è solo una replica della stessa noiosa comicità”. Ormai è il sesto lavoro su Molière, siamo partiti molto anni fa con il Medico immaginario, è come Netflix, finché Netflix non ci compra, noi camminiamo. Se no arriviamo a Versailles. Lavoro con una compagnia di giovani, una sorta di laboratorio spettacolarizzato».
Com’è lavorare con i giovani?
«Non hanno vita facile avendo fatto questo scelta, neanche la nostra era facile, ma questa è ancora più difficile. Dobbiamo fargli comprendere che siamo ad una svolta epocale che riguarda il teatro, ma non solo. Il mio ruolo è quello del traslocatore, da una casa del secolo scorso ad una nuova che lo incuriosisce. Nel trasloco possiamo portare dietro qualcosa della casa vecchia. Questo è il mio ruolo. Io faccio molti laboratori con i giovani e cerco di gestire al meglio le mie possibilità e i miei tempi. Bisogna soprattutto stare dentro il ruolo del traslocatore e imparare bene delle competenze nuove che noi non abbiamo»
Questo spettacolo fa parte di una serie di lavori su Molière, qual è la modernità di questo scrittore?
«Oggi vecchio è una definizione come destra e sinistra, non significa nulla. Soprattutto nel nostro ambiente. Moliere è al di la di uno studio filologico, storico, drammaturgico: a Versailles l’oggetto delle prese in giro di Molière era il suo pubblico, gli aristocratici. Era una complicazione, ma la sua grandezza. Sono da sempre interessato al conflitto tra potere e teatro, tra autorità costituita e fuorilegge».