Lido Adriano, il Grande Teatro di una comunità plurale
Federico Savini
Cerca il tutto nell’uno e trova l’uno nel tutto; vola alto (nella poesia e nella speculazione intellettuale) e affonda i piedi in ogni strato della società e in ogni lingua, ogni esperienza e ogni cultura. In due parole, vince la sua scommessa il Grande Teatro di Lido Adriano, progetto nato in seno al Cisim e che ha aperto di fatto il Ravenna Festival 2023, con una serie di repliche sold-out nella città rivierasca (l’ultima andrà in scena venerdì 2 giugno; si parte alle 20 dalla spiaggia, poi si torna al Cisim; difendetevi dalle zanzare!).
Qualche settimana fa, nel pieno del lavoro di coordinamento fra i numerosi laboratori allestiti per dare vita a questo spettacolo corale, il regista Luigi Dadina - punto di riferimento del Teatro delle Albe e vero mentore del Cisim di Lido Adriano, che ha saputo affidare a mani e menti più giovani ma straordinariamente serie e motivate - era stato chiaro: «È sul piano artistico che vogliamo essere giudicati. Il progetto ha sicuramente a che fare con il sociale ma è un progetto artistico al 100%. Se lo spettacolo non funzionerà, vorrà dire che qualcosa è andato storto». Ecco, dopo averlo visto ci sentiamo di dire forte e chiaro che lo spettacolo funziona. In sé per sé.
Poi, certo, è difficile restare indifferenti al clima di complicità e di amicizia vera - costruita in pochi mesi di lavoro alacre alla scoperta del teatro di comunità, che per quasi tutti i coinvolti è stata un’esperienza nuova - che trasudava dagli sguardi e dai gesti dei singoli così come del coro come entità collettiva, il vero protagonista di uno spettacolo multiforme e ricchissimo.
A partire dal mare le cui onde vengono dirette come un’orchestra dal burbero narratore Max Penombra, il Grande Teatro di Lido Adriano trasforma il Cisim nella Persia di mille anni fa, dove un coloratissimo coro che rappresenta tutti gli uccelli del mondo (e nasce dall’incontro fra persone di età, background e culture differenti) sente il bisogno di una guida e decide di cercarsi un re. Un re che non si riesce a nominare fra gli egoismi e le vanaglorie dei singoli, e che viene indicato dall’Upupa (interpretata da Lorenzo Carpinelli, che ha lavorato per mesi anche con i ragazzi più giovani) nella figura del Simorgh, per la cui ricerca ogni uccello dovrà rinunciare alle sue certezze e alle sue comodità. Il viaggio è irto di insidie, spesso e volentieri di ordine filosofico e ogni ostacolo viene superato anche con l’ausilio di parabole agevolate dai narratori, e con la musica, costruita su armonie e ritmiche della tradizione sufi da Francesco Giampaoli e un gruppo coeso di musicisti e con la straordinaria cantante Jessica Doccioli, dalla voce autorevole e dall’interpretazione vibrante (presa singolarmente, è la maggiore sorpresa dello spettacolo). Ma persino il rap di Lanfranco «Moder» Vicari si inserisce con naturalezza (e accorto soppesamento di liriche potenti e suggestive) in una riduzione teatrale che Tahar Lamri ha modellato, peraltro a tempo record, a partire da un poema sapienziale sufi del 1200, il «Verbo degli uccelli» appunto (suggerito dallo scenografo Nicola Montalbini, in una felice intuizione intellettuale).
La grande meraviglia dello spettacolo è però proprio il coro, una settantina di persone di ogni età e di ogni lingua che interagiscono con una naturalezza che è figlia di un’emozione vera, di un legame sincero cementato in poco tempo, e nello stesso di un coordinamento assolutamente professionale. Come un’imbizzarrita marea sempre sul punto di esondare, e tenuta a freno di volta in volta dagli argini scenici dei narratori, di Moder e di Carpinelli, il coro si muove come un organismo unico e complesso - nel quale i bambini sono tutt’altro che un compendio accessorio -, capace però anche di far emergere individualità notevoli, che magari intraprenderanno seriamente percorsi artistici di spessore.
D’altra parte, il senso stesso della rappresentazione e del poema originale è quello di ritrovare sé stessi come parte integrante, attiva e responsabile di una comunità. Alla fine il re è talmente nudo che nel gesto di specchiarsi si trova di fronte un nuovo sé stesso, mutato dal viaggio e dalla messa in discussione di un certezza e ogni abitudine; quelle che riempiono di ruggine la nostra umanità. Che necessita di esperienze e sfide continuative per mantenersi viva.