Il ravennate Matteo Gatta protagonista del film «Est. Dittatura last minute», che uscirà in novembre
Federico Savini
«Noi siamo barboni di razza già in tempi normali: dormiamo sui divani degli amici e facciamo la spesa all’ingrosso. Diciamo che però che adesso, con il distanziamento nei teatri, la precarietà ha raggiunto limiti difficili da reggere». Lo dice con quel fondo di spensieratezza che si addice alla giovane età e all’accento imbastardito di «Ravenna centro» (come rivendica lui stesso), ma l’attore ravennate Matteo Gatta ha decisamente chiara la situazione in cui versa il settore del teatro in questa difficilissima cesura storica. Un periodo che Matteo affronta con una relativa serenità anche perché l’attore - formatosi al Piccolo di Milano e con esperienza pregressa anche con le Albe di Ravenna - in questa particolarissima fase della sua vita è principalmente un attore di cinema, nella fattispecie uno dei tre giovani protagonisti di Est. Dittatura last minute, film di Antonio Pisu presentato a Venezia e pronto a uscire nelle sale in novembre, nel quale Matteo Gatta interpreta un ventenne cesenate che, nel 1989, un attimo prima della caduta del muro, pensa bene di farsi un viaggio «all’Est», in particolare in Romania e Ungheria, per respirare quell’aria di Urss che sarebbe scemata di lì a poco. I suoi compagni di viaggio (e di grande schermo) sono Jacopo Costantini e Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale.
«Fino il film si è visto solo a Venezia e in alcune anteprime - spiega Matteo -, ma in novembre sarà in sala, nella programmazione regolare dei cinema».
Come sei arrivato a fare il protagonista in questo film?
«Una gran fortuna al primo colpo - ride, nda -. Nel cinema questa è la mia primissima esperienza ma, in effetti, ho una formazione teatrale. Dopo il diploma al Piccolo di Milano, per un attore in erba, si prospetta un deserto lavorativo impressionante! Bisogna cercare un’agenzia e io sono passato dal Lab Under 25 delle Officine Artistiche, rimanendo in contatto con l’agente Daniele Orazi, che mi ha organizzato un provino a Cesena con Antonio Pisu. Dieci minuti in tutto, mi pareva d’essere andato bene ma credevo fosse stato tutto troppo veloce, e invece il ruolo di Pago era mio».
Cosa sapevi, prima del film, di questo mito, molto emiliano-romagnolo, dei viaggi all’est all’epoca della guerra fredda?
«Ne ero del tutto fuori, non ne sapevo niente. Ma credo che questo abbia reso il film più coinvolgente, perché ero curioso di ogni cosa. Nelle anteprime ho carpito un doppio interesse generazionale: i miei coetanei erano presissimi da questa idea di scampagnata on the road verso i paesi comunisti, mentre alcuni signori che effettivamente andarono in Romania in quegli anni hanno trovato il film pienamente realistico, tanto che gli ha fatto emergere ricordi precisi di dettagli dimenticati. Credo che il film riesco a proiettare davvero in quel mondo e devo dire che mi è piaciuto particolarmente girare in Romania, dove ho toccato con mano la dignità di quel popolo. A Cesena, poi, credo che mezza città ci odi, visto che abbiamo bloccato il centro per quattro giorni…».
Cosa ti ha sorpreso di più della lavorazione al film?
«Ero il più esordiente di tutti. In fondo Jacopo è già un attore navigato mentre Lodo nasce come attore, si è diplomati in accademia a Udine. Ero un po’ spaventato, ma coi ragazzi abbiamo legato tantissimo, siamo sempre stati molto seguiti sul set da maestranze esperte e il regista, Antonio Pisu, ha gestito tutto alla grande. Poi sul set si litiga, eh, i tempi sono stretti, la tensione non manca, ma è andato tutto bene. Del cinema mi colpisce la quantità di persone che ci lavorano, con il mio background teatrale non so se lo capirò mai».
Differenze di recitazione?
«Tutti mi dicevano di essere più naturale possibile, rispetto a come si sta in teatro. Per me invece è andata all’opposto, forse per la guardo da una prospettiva di lavoro. Secondo me il teatro è più naturale perché il personaggio, che magari porti in scena per un’ora, lo crei pian piano. Al cinema invece vieni scaraventato sul set, magari partendo dall’ultima scena e andando a ritrovo. In questo senso lo trovo più “artificioso” del teatro, ma è molto interessante. E comunque han proprio ragione quelli che dicono che il film “lo fa il montaggio”. Il risultato che vedi alla fine è diverso da come lo immaginavi».
Il tuo personaggio è introverso, e la sua voce off è affidata a Ivano Marescotti. L’hai anche conosciuto?
«Non dal vivo e non per questo film. Ho alcuni amici che frequentano i suoi corsi al Tam e una volta l’ho contattato via mail. E’ stato molto gentile e spero di conoscerlo presto, mi mette anche un po’ di soggezione».
Ora a cosa lavori?
«Oltre a recitare io scrivo e dirigo per il teatro, ma in questo periodo la realizzazione di ogni progetto è in dubbio. A Ravenna, in periodo natalizio,l porterò Amore, uno spettacolo a cui tengo molto, sarà a Ravenna in periodo natalizio. Cerco di raccontare cose profonde in modo leggero, con un’estetica vignettistica».
Quanto impatta la pandemia sul tuo lavoro?
«Enormemente. A Ravenna lo spettacolo lo faremo, ma fare contratti a Milano e Roma, in una situazione che limita i posti nei teatri, è difficilissimo. Avrei uno spettacolo su Gramsci da riprendere, ho pronto un monologo su Perturbamento di Thomas Bernhard ma non ci sono garanzie. Figurati che per un corso di alta formazione che ho fatto a Mantova mi son visto saltare un saggio che consisteva in un monologo fatto mentre giocavo a scacchi con il pubblico, ovviamente in contrasto con il distanziamento. Dover scegliere tra la sanità e il diritto di lavorare è terribile, rende tutto troppo fragile e incerto».