Lucia Fischetti
«Di cosa parliamo quando parliamo d'amore?». Non è solo il titolo di un racconto di Raymond Carver, ma anche quello di una rassegna cinematografica che il 29 novembre scorso a Casola Valsenio ha proiettato Zen - Sul ghiaccio sottile, opera prima dell'imolese Margherita Ferri sul tema dell'identità di genere. In questa occasione, Beatrice Bandini, insegnante di filosofia del liceo faentino ha moderato l'incontro con la regista, nonché sua ex allieva e ha sottolineato quanto gli stereotipi sulla diversità nella società odierna siano frequentemente abusati.
Zen, conosciuta da tutti come Maia e interpretata dalla ventiduenne bolognese Eleonora Conti, è un’adolescente originale, diversa dal resto della scuola e l’unica ragazza a giocare nella squadra di hockey, il suo sport preferito. Proprio per la sua forte personalità, Maia è bullizzata da tutti i coetanei che la circondano, tanto da avere come unica e migliore amica la madre. Tutto ciò fino all’arrivo di Vanessa che, pur essendo la fidanzata di uno dei compagni di squadra e bulli di Maia, appoggia la ragazza. Vanessa, interpretata dalla ventiquattrenne friulana Susanna Acchiardi, in un momento di confusione identitaria sente il bisogno di isolarsi per riflettere e lo fa nascondendosi nel rifugio della madre di Maia, lontano dal paese. Le due iniziano a provare dei forti sentimenti l’una per l’altra ed è così che Maia inizia a riconoscersi nella personalità di Zen, non solo l’abbreviazione del cognome Zenasi, ma il nome di un ragazzo imprigionato dentro a un corpo femminile e uno dei più promettenti giocatori di hockey del paese.
Il film, prodotto da Ivan Olgiati e Chiara Galloni di Articolture, è girato e ambientato in Emilia Romagna, più esattamente a Fanano e nelle montagne dell’appennino bolognese. Ad oggi ha ricevuto nomination e menzioni speciali, anche grazie al grande sostegno del progetto Biennale College, che coinvolge cinema, danza, musica e teatro, portando a Venezia giovani artisti da tutto il mondo e offrendo loro l’occasione di operare a stretto contatto con maestri. «Il Castoro» ha intervistato la regista Margherita Ferri.
Perché proprio l’hockey?
«L'hockey non era presente nella prima versione del soggetto del film, scritto nel 2013 e vincitore di una menzione speciale al Premio Solinas. Quando nel 2017 il progetto, dopo molte disavventure con vari produttori, è passato a una casa di produzione di Bologna, Articolture, mi è stato chiesto di riambientare la storia nella nostra regione, spostandola dalle Alpi all'Appennino emiliano. Ho fatto un po' di ricerca e ho scoperto che a Fanano, sul monte Cimone, c'è un palaghiaccio molto bello e che tutta la vita sociale del paese gira attorno ad esso. Ho scelto così di ambientare i conflitti tra Zen, Luca e Vanessa sul ghiaccio, facendo giocare a hockey Zen e Luca. Visivamente, l'hockey è uno sport molto interessante perché è come una danza sul ghiaccio, molto veloce e a volte molto violenta. Mi interessava anche rappresentare tramite la divisa da hockey, molto spessa e pesante, una specie di armatura che divide Zen dal mondo esterno. Ho trovato l'hockey molto ricco di spunti visivi e metafore adatte alla storia, sulla quale costruire il mondo del film».
Da che cosa è partita l’idea?
«L'idea iniziale è stata scritta nel 2013 e partiva dall'esigenza di raccontare l'incontro tra due adolescenti cresciute in un piccolo paese di provincia, in cui vivono e trovano la libertà di raccontarsi chi sono, di farsi delle domande sulla propria identità e sul proprio futuro. È la storia di un incontro magico, che avviene in un periodo tumultuoso e che cambia la vita di Zen e Vanessa. Zen si fa delle domande sulla propria identità di genere mentre Vanessa sul proprio orientamento sessuale, si confrontano perché entrambe si sentono diverse dagli altri ragazzi e cercano delle risposte. Il tema principale del film è infatti la diversità e come si possa cercare il proprio posto nel mondo, al di fuori del ruolo che gli altri ti vogliono imporre nella vita».
Il finale prevede un sequel?
«No, il finale è il finale! Per me è positivo, perché vede Zen affermare la sua identità maschile, entrando nello spogliatoio dei ragazzi e scrivendo il suo nuovo nome. Il gesto finale di togliersi i guanti e il casco rappresenta una nuova sfida che Zen lancia verso il proprio futuro».
Prende spunto da una storia vera?
«No, anche se ci sono molte scene autobiografiche o che ho sentito raccontare dai miei amici. Il sentimento di fondo è molto reale e appartiene alla mia vita, ovvero lo scoprirsi diversi e cercare di trovare il proprio posto e la propria forma in una società che non accetta molto la diversità».
Perché si dovrebbe guardare questo film?
«Spero perché è una storia sincera e molto sentita, realizzata grazie alla passione di un gruppo di giovani cineasti, con attori non professionisti, che può far comprendere a tutti qualcosa di molto umano, intimo, ma estremamente pubblico come l'identità di genere e l'orientamento sessuale, senza pregiudizi o giudizi».