Martina Panzavolta
L’estate che imparammo a sparare, pubblicato nel novembre 2018, è l’ultimo lavoro di Giuseppe Filippetta, già direttore della biblioteca del Senato e ora studioso dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza. Il libro è stato presentato mercoledì 4 dicembre, all’auditorium di S.Umiltà, di fronte a una platea di studenti del liceo Torricelli-Ballardini.
Alla base della formazione dell’autore il diritto e la storia. Il libro -sottotitolato «Storia partigiana della Costituzione» - si può definire una perfetta sintesi delle due discipline, pur non mancando di tratti poetici. Canzoni, lettere ai famigliari e metafore, sono tante le voci che creano una Resistenza prospettica, in grado di rappresentare tutti coloro che quella guerra l’hanno combattuta. Infatti, rispetto alla più comune visione di un romanzo, che racconti la vicenda di un singolo dal suo punto di vista specifico, questo libro rivela una molteplicità di storie ed esempi. Durante la narrazione sono presentate innumerevoli fonti che ripercorrono la storia di tutta un’Italia: «Il mio obiettivo - spiega l’autore - era mantenere un criterio polifonico, per sottolineare l’importanza dell’azione del singolo e trovare una concatenazione comune, una visione diversa da quella che la storiografia ci ha sempre lasciato».
Il libro di Giuseppe Filippetta prende l’avvio dallo sgretolarsi dello Stato fascista fino ad arrivare alla ricerca di una nuova sovranità, costruita nel dopoguerra, sulla base di una Costituzione che ha messo le radici nella Resistenza. In questa fase i singoli cittadini hanno operato una scelta consapevole e partecipata, prendendo così le distanze da ciò che è stata l’Italia prima dell’8 Settembre ʼ43. L’autore paragona il regime fascista al Leviatano di Hobbes: in testa la corona, nella mano destra la spada, in quella sinistra il pastorale, il corpo composto da innumerevoli uomini minuscoli, che danno vita al grande sovrano, il quale decide la religione, la vita e le lotte che impone al suo popolo. All’alba dell’8 settembre il grande Leviatano non c’è più, «si frantuma, si sbriciola». A quel punto, ognuno deve cominciare una nuova vita: «È partigiano colui che, imbracciando il proprio fucile come una promessa, prende su di sé la paura della morte per toglierla dalle strade degli italiani». Il ricorso alla violenza è vissuto dal partigiano come una necessità, una costrizione morale. Non c’è amore per la violenza e per l’arma, ognuno impara a sparare perché nella sua coscienza lo riconosce come unico mezzo di riscatto. E, in effetti, il pretesto per combattere è fare resistenza verso qualcosa di intollerabile, il fascismo. Ogni partigiano non era solo socialista, solo comunista o solo democristiano, la maggior parte poi non aveva appartenenza partitica. Ogni partigiano era prima di tutto antifascista. Pertanto, secondo Filippetta, ciò che unisce gli italiani, nella loro differenza, è il coraggio di dar voce a quei principi e a quei valori che sono l’essenza del nostro vivere comune. «La nostra Costituzione -spiega l’autore- è il frutto della nostra sovranità, e ci assegna un compito: adempire a quei doveri che essa ci assegna».
L’Estate che imparammo a sparare dimostra che un popolo «marionetta» ha potuto trovare autonomia di movimento. Attraverso le armi, gli uomini hanno costruito prima le bande, poi una «Costituzione dei fucili» e infine la Costituzione repubblicana, che continua a riportare la Resistenza dentro alla Costituzione. È questo l’obiettivo di Giuseppe Filippetta: trasmettere la necessità di farsi interpreti del diritto, proprio perché ci appartiene e ci rende ciò che siamo.
In una lettera a sua madre, il giovane partigiano Rurik, uno di quelli che ha ispirato la stesura del libro, scriveva: «Su compagni, resistere e aspettare / far d’ogni pena una potenza nuova / e dove non giunge la materia / alzare l’anima in sogni. / E quel che pertinacemente aneli, / in terra e in mare, domandare ai cieli».