Forlì, Silvia Camporesi partecipa alla grande mostra «Essere umane» al San Domenico

Romagna | 18 Settembre 2021 Cultura
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Federico Savini
«Quando dico che faccio la fotografa quasi tutti pensano ai matrimoni o alla moda, non certo ad una mostra al San Domenico. Quindi è anche per questo che una mostra del genere in uno spazio del genere è importante». Silvia Camporesi è un punto di riferimento per la fotografia d’arte contemporanea nel nostro territorio - è forlivese ma a Ravenna è direttrice del progetto Camera Work, occupandosi in particolare delle mostre allestite al Palazzo Rasponi 2 - e il suo coinvolgimento nella grande mostra «Essere umane: il mondo raccontato dalle grandi fotografe», allestita al San Domenico di Forlì dove resterà visitabile fino al 30 gennaio (l’inaugurazione sarà sabato 18 all’interno degli eventi della Settimana del Buon Vivere), è la riprova di un valore dimostrato sul campo e negli anni, un piccolo coronamento di carriera. Nota soprattutto per la capacità di trovare e immortalare luoghi di insolita e fascinosa desolazione, nella mostra forlivese Silvia Camporesi esporrà «Domestica», installazione di 30 fotografie scattate durante il recente lockdown. Il suo lavoro è inserito in un percorso di oltre 300 scatti di trenta autrici dagli anni ’30 ad oggi, dalla Great Depression di Dorothea Lange alle leggendarie immagini di Lee Miller nella vasca da bagno di Hitler, dalle sfilate di Harlem di Eve Arnold (prima donna assunta alla Magnum) alla «Mask series» dell’austriaca Inge Morath fino ai ritratti della sudafricana Zanele Muholi, protagonista della Biennale di Venezia del 2019.
«La scelta di un lavoro come “Domestica” per quest’importantissima mostra - spiega Silvia Camporesi - è venuta confrontandomi con il curatore, Walter Guadagnini. Secondo lui era coerente al percorso di sguardi femminili su cui è imperniata la collettiva. In questo modo avremmo dato conto anche del lockdown».
Da quale prospettiva hai «fotografato il lockdown»?
«Da quello di una persona che, come tante, si è ritrovata costretta in casa, ma anche con un grande apporto delle mie due figlie. In quei mesi tutti quanti abbiamo sperimentato ristrettezze di ogni genere, dai rapporti umani al banale fatto dello spazio a disposizione. Mi sono data, come regola, quella di fare almeno una foto “buona” al giorno, con la macchina professionale e tutto il resto. Il punto di vista delle mie figlie è stato di grande ispirazione, infatti ci sono tanti giochi e, sia grazie alla loro fantasia che alla mancanza di alternative, ogni angolo della casa ha offerto spunti inediti».
Un modo di lavorare molto diverso rispetto alla ricerca di luoghi affascinanti che hai praticato spesso.
«Sì, assolutamente, è stata una ricerca fra quattro mura, letteralmente. Una crepa nel muro, ad osservarla in un certo modo, può diventare un paesaggio, la macchia di una grondaia si trasforma in un lupo e così l’intera casa ha assunto sembianze nuove. Il contributo delle bambine è stato fondamentale».
La mostra di Forlì è tutta declinata al femminile. Ma nella fotografia ci sono stati pregiudizi sulle donne simili a quelli riscontrati storicamente in altri campi espressivi?
«In generale l’atto di divere il maschile dal femminile è sempre problematico, ma di sicuro è utile oggi far comprendere il grande contributo delle donne alla fotografia. Un contributo che è stato enorme, tra l’altro, proprio perché all’inizio la fotografia era considerata una “cosa da donne” e appunto le donne la praticavano più degli uomini, sostanzialmente come hobby, almeno fino al lavoro di una pioniera come Julia Margaret Cameron, che ha fatto capire a tutti il potenziale della fotografia. Poi, come capita un po’ in tutte le discipline creative, l’apporto delle donne finisce per essere quantitativamente minore, perché tante artiste talentuose finiscono per abbandonare carriere promettenti per i doveri familiari».
L’interesse per la fotografia d’arte è in crescita, vedi anche solo le iniziative forlivesi, ma anche quelle del Mar e di Camera Work. Come si spiega questo successo?
«Credo fosse questione di tempo ed è una cosa molto positiva. La fotografia sconta un retaggio culturale sullo strumento della macchina fotografica. A differenza della pittura, che tutti percepiscono preventivamente come arte, la fotografia nasce nell’era industriale e la si usa per la pubblicità, per la cronaca, per documentare quadretti familiari o eventi speciali. La sua natura polivalente ha finito per farne sottostimare, per anni, il potenziale artistico».
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