Federico Buffa torna a Ravenna a parlare di sport e di vita
Elena Nencini
Nulla accade per caso, il fato decide le sorti delle nostre vite: comincia così l’ultimo spettacolo, Il rigore che non c’era, di Federico Buffa telecronista storico di basket e poi di calcio, ma soprattutto ‘raccontatore’ di storie. Buffa sarà a Ravenna sul palco del teatro Alighieri sabato 14 (ore 21, repliche domenica 15 ore 15.30 e lunedì 16 ore 21).
Un viaggio del tutto surreale all’interno del quale si mescolano personaggi sportivi ed eventi storici: una sorta di vera e propria epica sportiva che si addentra all’interno di storie che hanno segnato il corso del nostro tempo.
Buffa, partendo dal titolo dello spettacolo «Il rigore che non c’era» c’è stato nella sua vita un momento di questo tipo?
«Uhh, e chi non ce l’ha. Nel 2012 sognavo di andare a commentare la finale di basket alle Olimpiadi di Londra, per Sky, ma non venni mandato, pensai che la mia carriera finisse là. Volevo andare a vivere in oriente, avevo anche una fidanzata giapponese all’epoca, invece una collega di Sky mi chiese di raccontare delle storie per riempire gli intervalli tra una partita di pallacanestro e l’altra. Fabrizio Ferri le vide e mi disse: ‘Perché non fai la stessa cosa con il calcio?’ Improvvisammo la prima sul calcio, sull’infanzia di Maradona, e quello diventò “Federico Buffa racconta”. Poi dissi che facevo solo storie di basket, ma per il Giorno della Memoria, mi chiesero di raccontare la storia di Arpad Weisz, ebreo ungherese, allenatore del Bologna, esiliato per le leggi razziali e morto ad Auschwitz. Mi sentii obbligato a farlo. Poi sono nate Le storie mondiali e da lì lo spettacolo in teatro».
Nelle sue storie lei ha parlato di tanti personaggi dello sport, ma non solo. C’è qualcuno in particolare che l’ha ispirata, colpita nello spettacolo?
«Ci sono tante storie che non conoscevo, tante, ma quella che mi ha colpito di più è sicuramente quella di Muhammed Ali. Sono curioso e spesso scopro nuove storie perché me le vengono a raccontare».
Ha cominciato a fare cronaca di sport con il basket, che passione rappresenta questo sport per lei?
«La vita, è il mio sport. L’ho giocato tanto, con tanti limiti visto che sono alto solo 1 metro e 75. Anche adesso sto guardando la partita dei Lakers dell’altra sera. Ho cominciato a 13 anni e l’ho giocato ogni giorno della mia vita fino ai 20. Naturalmente sognavo di andare in America, lì ho avuto la conferma che quello era il mio sport: specie negli anni ‘70 quello negli Usa era un viaggio nello spazio».
Cosa ha di speciale il basket?
«La completezza, ha due fasi, una difensiva e una offensiva, la velocità, la qualità di come si passa la palla. Il mio maestro Aldo Giordano parlava di ‘atletismo ‘giocato’».
Ha seguito anche il calcio come telecronaca?
«Il basket era più vicino alla mia visione dello sport, ho seguito il calcio fin da piccolo perché i miei erano abbonati al Milan, ma non avrei mai pensato di farne la telecronaca».
Lei ha raccontato che suo padre da piccolo le faceva leggere la rubrica «L’arcimatto» di Gianni Brera sul Guerin Sportivo, quanto l’ha formata giornalisticamente?
«E’ stato fondamentale. Noi ci formiamo in quell’epoca lì, da ragazzini assorbiamo tantissimo. Brera era un uomo che scriveva in un modo che non sembrava avere niente a che fare con il calcio, aveva la capacità di raccontare quello che voleva lui, specie di antropologia. Era un marziano per l’epoca. Mio padre mi diceva “Non importa se non capisci tutto quello che dice, l’importante è familiarizzare con quel linguaggio che sembra non avere niente a che fare con il calcio”. Mi servì a capire che si poteva parlare di sport senza essere legati esclusivamente al fatto tecnico, usando un lessico atipico e mettendoci dentro anche ciò che accade fuori dal campo da gioco. Penso che della tecnica è meglio che parlino i tecnici, a me piacciono gli aspetti umani sono molto attraenti, uomini e donne sono molto interessanti. Per esempio Gigi Riva ha una storia particolarissima, se non capisci la sua vita privata non capisci quella sportiva».
Una storia che le piacerebbe ancora raccontare?
«Quella della squadra di calcio della Jugoslavia degli anni ‘90, è proprio la storia di quegli anni. Oggi tanti giovani italiani non hanno la percezione di avere avuto una guerra così crudele e così vicina, sull’altra sponda dell’Adriatico. Quando ci furono gli Europei del ‘92 la squadra jugoslava, che si era qualificata, fu esclusa dal torneo perché la guerra civile la devastava: Fifa e Uefa sospesero la squadra che aveva dei grandi talenti, che poi finiranno in molte squadre europee. È una storia di grande impatto: c’è orrore, rinascita, effetti collaterali. In Jugoslavia avevano il permsso dopo 27 anni di poter lasciare il paese, per loro era diventata una sorta di tradizione. Quanti giocatori di quell’area sono finiti poi nelle squadre europee come Miralem Pjanic, calciatore della Juventus portato dai genitori in Lussemburgo proprio per sfuggire alla guerra, oppure il centravanti della Roma Edin Dzeko che giocava a Sarajevo durante i bombardamenti e si salvò grazie a una chiamata della mamma: dieci secondi dopo essere tornato a casa cadde una bomba nel punto in cui giocava. Ecco il caso che governa le nostre vite».
Lunedì 16 dalle 18 alla sala Corelli del teatro Alighieri si parla di «Teatro e Sport»; Federico Buffa incontra Giorgio Bottaro, Alessandro Brunelli, Luca Casadio, Julio Trovato in dialogo con Gianfelice Facchetti, attore, drammaturgo e regista teatrale.