Famiglie interculturali: "Il bello di crescere i figli con più riferimenti"

Romagna | 01 Febbraio 2020 Mappamondo
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Barbara Gnisci e Silvia Manzani

«Nel mio Paese, quando ci si siede a tavola si sta in silenzio, perché il cibo è il re. Qui, invece, il pasto è un momento di condivisione, uno di quelli in cui si parla di più, rispetto a tutto il resto della giornata. All’inizio questa cosa mi dava fastidio, poi insieme a mio marito Michele ho trovato una mediazione: prima stiamo un po’ in silenzio e dopo si chiacchiera». Jeannette Kuela (nella foto), 41 anni, proveniente dal Burkina Faso e residente a Faenza, è mamma di Eleonora, 18 anni, e di Francesco, 14 anni: «Nel nostro stile educativo prevale il compromesso e il confronto. Abbiamo preso il meglio da entrambe le culture di appartenenza. Credo che questo sia dovuto anche alle nostre formazioni. Ho conosciuto Michele nel mio Paese, dove era venuto per fare una tesi di antropologia. Il nostro incontro è stato favorito dalla curiosità e dall’apertura nei confronti dell’altro». Qualche differenza Jeannette la nota nella relazione figlio-genitore: «In Italia, c’è un rapporto più ravvicinato e più “amichevole” con i propri figli. Nel mio Paese i bambini stanno con i bambini e gli adulti con gli adulti. Sono due mondi separati. E ci sono più gerarchie. Qui i figli si intromettono nei discorsi dei grandi. Inoltre, in Burkina Faso, quando un genitore dice “no” è no, non si controbatte. Qui, tentano sempre di convincerti e di farti cambiare idea». 

I DATI REGIONALI
La storia di Jeannette non è una rarità, almeno a giudicare dai dati. Secondo il Rapporto nascita della Regione Emilia-Romagna sui dati 2018, la percentuale di nati con almeno un genitore straniero è del 37,5%. Nello specifico, il 25,3% dei bambini nati due anni fa sul territorio è nato da genitori entrambi stranieri, mentre il 12,2% ha un solo genitore con cittadinanza straniera. 

SHKO E L’OCCIDENTE
Predilige decisamente il modello educativo occidentale Shko Ali, 46enne iracheno, padre di due bambine di 15 e 10 anni, Soraya e Zoleika, che vivono insieme a lui e a sua moglie Simona a Ravenna: «Io sono musulmano, mentre mia moglie, che è italiana, è cattolica. Abbiamo lasciato che le bambine scegliessero loro quale fede seguire, importa solo che stiano bene e che siano felici». Commerciante tra l’Italia e l’Iraq, Shko torna spesso nel suo Paese: «Mi sono trasferito in Italia nel 1996 e ogni volta che torno in Iraq mi sento un outsider». Figlio di un generale iraqueno, Shko vuole il meglio per le sue figlie: «La mia fortuna è che sono cresciuto in una famiglia di mentalità aperta e questo mi ha permesso di creare una famiglia armoniosa e unita. Credo che la mediazione sia un importante strumento di sviluppo e di pace». 

«DUE STRANIERI»
Si è adattata moltissimo ai modi italiani anche Emmy Kamene, del Kenya, che oggi vive a Ravenna con il marito Federico e i figli di 11 e 14 anni: «Il primo è nato in Italia, dove ci siamo trattenuti per sei mesi. Poi siamo andati in Swaziland, in Sudafrica dove è nato il secondo, in Laos, a Singapore. Siamo rientrati a Ravenna sette anni fa. Mio marito l’ho conosciuto in Sudan, siamo stati sempre in giro per il mondo da stranieri, dunque le nostre culture sono sempre state molto flessibili». Secondo Emmy, più che di differenze culturali, quando si parla di rapporti di coppia ed educazione dei figli sono le differenze tra una famiglia e l’altra a contare: «Ogni casa ha le sue regole, i suoi compromessi e i suo punti di incontro». Certo, quando guarda ai suoi figli Emmy ripensa spesso alla sua, di infanzia: «A volte li vedo così dispettosi e poco rispettosi che mi viene da raccontare loro che io, al posto loro, mi sarei presa uno schiaffo a rispondere male ai miei genitori». 

MASCHI E FEMMINE
Appartengono a due culture forse più vicine Aneta Malczak, 38 anni, polacca, e il marito ravennate Andrea: «Le nostre rispettive famiglie condividono molte cose: valori etici e morali di ispirazione cattolica basati sull’onestà, sulla responsabilità, sul senso del dovere e del lavoro, sulla bontà. Sono questi gli insegnamenti che, ormai da otto anni, cerchiamo di trasmettere anche a nostro figlio Emanuele”. A influire sull’accorciamento delle distanze, la formazione di Aneta: «Sono arrivata in Italia quando avevo 20 anni, mi sono iscritta all’università e poi ho iniziato a lavorare a Ravenna dove vivo da una decina di anni». Questo non significa rinnegare: «Io e Andrea teniamo tantissimo che Emanuele assimili anche la cultura e la lingua polacca. Ogni sabato lo portiamo a Bologna in una scuola polacca. Crediamo entrambi che sia una grande ricchezza essere portatore di due culture e lingue differenti, nostro figlio ha così modo di sperimentare due modalità diverse ma, allo stesso tempo simili, di educazione e formazione. In generale, una cosa che noto è che nelle case in Polonia, non ci sono differenze tra maschi e femmine, tra grandi e piccoli: tutti contribuiscono alla gestione della routine quotidiana. In Italia, mi sembra, invece, che si tenti di preservare i figli un po’ di più».

SFUMATURE ARGENTINE
Vivono le sfumature tra Italia e Argentina, invece, sia Irupe Decima (nella foto) e il marito che Luciano Cancelliere e la moglie. La prima, mamma di una bimba di sei mesi, vive a Ravenna e per ora vede una sola differenza quando pensa al proprio Paese: «Da noi, ancora adesso, esistono le famiglie numerose. Le donne della mia età hanno almeno tre o quattro figli e, inoltre, le famiglie non solo sono composte da tante persone, ma sono anche allargate». Anche per Luciano, che si è trasferito a Ravenna nel 2002, le differenze, rispetto alla moglie, nel crescere i figli di 5 e 7 anni, sono veramente poche: «Qualche differenza la noto solo nelle piccole abitudini che, forse, sono più legate ai tempi che ai luoghi. Quando io ero piccolo giocavo molto per strada insieme ad altri bambini e agli animali che erano intorno a noi. Con i miei figli cerco di fare la stessa cosa. Oltre a trasmettere la lingua e la cultura del mio Paese, cerco di insegnare giochi semplici, oltre al rispetto e all’amore per gli animali. Credo che i bambini, in Argentina, vengano cresciuti più o meno allo stesso modo. Forse usano meno la tecnologia».
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