Faenza, Fabrizio ‘Caveja’ tiene corsi di romagnolo frequentati da under 40 «bilingue»

Romagna | 19 Novembre 2024 Cultura
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Federico Savini
«Molti addetti ai lavori sono più scoraggiati di quanto lo sia io sul futuro del dialetto romagnolo. In un paio d’anni ho avuto circa 200 corsisti, per la gran parte molto giovani, e so per certo che il nostro dialetto è sopravvissuto ad un secolo, il Novecento, che ha cercato più volte di eradicarlo perché molti lo consideravano “la lingua dei poveretti”. Ma è comunque sopravvissuto. Credo che nel caso del romagnolo sia più potente la lingua rispetto ai suoi parlanti. “Si può fare”, per dirla con Frankenstein!». Fabrizio ‘Caveja’ Barnabé parla con passione e con argomenti di qualcosa che evidentemente gli sta a cuore. Il cantautore borghigiano che da diversi anni ha incorporato dialetto e tradizioni nel suo canzoniere, dall’anno scorso tiene corsi di romagnolo per assoluti principianti (attualmente al Frankie di corso Baccarini 42 a Faenza e presso l’associazione Marte di via S.Alberto 19 a Ravenna) e ha pubblicato molti video e reel su Instagram proprio sulla lingua dei nostri padri, che nel caso di Fabrizio e di molti suoi corsisti sono i nonni…
«Devo dire che condivido con molti di loro la situazione di partenza - racconta lui stesso -. Hanno ascoltato il dialetto dai nonni più che dai genitori e non sono mai stati stimolati a parlarlo. Con l’avanzare degli anni ne sentono una remota mancanza e partecipano ai miei corsi».
Ma tu quando hai capito che il dialetto sarebbe stato importante nella tua vita?
«Oggi ho 36 anni e una decina d’anni fa mi sono accorto che sapevo meglio l’inglese del romagnolo. Qualcosa era andato storto… tanto più considerando che sono molto appassionato di Romagna e tradizioni. Poi ho approfittato del Covid per studiare e colmare lo ‘stridore’ che sentivo per la mia incompetenza linguistica…».
Sei principalmente un musicista, ma al tempo di Fab e i fiori non c’era dialetto né «romagnolismo» alcuno nella tua musica. Quelli sono arrivati poi. Che genere di contributo vorresti dare a quella storia mai davvero scritta che è la canzone dialettale romagnola?
«Proprio adesso sto lavorando a un disco interamente in romagnolo e sì, la storia della nostra canzone dialettale è fatta di contributi sporadici, anarcoidi, a volte anche di grande valore ma mai davvero valorizzati. In altri casi la canzone dialettale si è persa nell’obbligo di far ridere, come accaduto anche al teatro di tradizione, fatto praticamente solo di commedie. Io credo di aver introdotto un po’ di tristezza, di blues, di intimità nella canzone ‘in romagnolo’; lo sottolineo perché appunto sono più vicino alla black-music che al valzer. Troppo spesso l’arte in romagnolo viene sacrificata in nome della trivialità».
L’ironia, comunque, si sente anche nelle tue cose…
«È vero, ma io credo che l’ironia sia proprio una “componente linguistica” del romagnolo. Sarebbe impossibile e probabilmente anche sbagliato toglierla del tutto. Quello che io non dimentico è il lato tragico dell’esperienza umana, a cui il dialetto si presta, come ha sempre detto Marescotti. Credo semplicemente che si sia ecceduto con la comicità».
Come arrivi ai corsi di lingua?
«Dagli aperitréb che organizzammo qualche anno fa a Faenza insieme a Cristina Vespignani e Alberto Giovannini. Ci rendemmo subito conto che per fare dei veri trebbi occorreva una minima preparazione, che per lo più non c’era. Diventavano, ogni volta, delle piccole lezioni. Così ho pensato ai corsi per principianti assoluti. E ha funzionato, sono stato inondato di iscritti».
Quanti sono? E che età anno?
«L’anno scorso tra Imola e Forlì ho avuto un centinaio di iscritti. Quest’anno 150 tra Forlì, Faenza e Ravenna. Oltre 200 persone in totale ai corsi base, senza contare l’avanzato e il livello scòrar, che poi è ciò che sarebbe dovuto essere l’aperitréb. L’età va dai 9 anni di Arianna agli 86 della Renata, ma il 70% degli iscritti è nato negli anni ’90 ed è quindi under 40. Poi ci sono gli ‘stranieri’: francesi, finlandesi, ma anche veneti e napoletani».
Sono bravi?
«Spesso più dei romagnoli, e questo è sorprendente, ma fa il paio con il fatto che anche i ventenni, in genere, sono più bravi dei sessantenni. Credo dipenda da un fattore psicologico: i romagnoli, specie i non giovanissimi, hanno subìto un processo di subordinazione culturale dei dialetto nei confronti dell’italiano. I loro genitori si sono censurati, in casa, per evitare che i figli imparassero come madrelingua la “lingua dei poveretti”. È una cosa inconscia, sennò non farebbero i corsi, ma li condiziona. Giovani e stranieri, invece, approcciano il romagnolo esattamente come una seconda lingua, senza pregiudizi».
I video che fai su Instagram li possiamo considerare spin-off dei corsi?
«Sì, la lingua va ascoltata. In fondo anche l’inglese spesso lo impariamo più dalle canzoni che dai libri. I giovani non vanno a vedere le commedie dialettali, quindi ho pensato ai reel».
Veniamo al dunque. Il romagnolo ha un futuro?
«Vive se cambia d’ambito, secondo me. Trattarlo come un animale in via d’estinzione non credo lo aiuterà. Le lingue spesso sfuggono anche a chi cerca di tutelarle. Per usarle nel presente dobbiamo misurarle sugli strumenti di oggi, come i reel e i podcast. Ai ragazzi il dialetto interessa come seconda lingua, ci vedono un potenziale di ‘coolness’ che ovviamente sfugge alle generazioni più grandi. Pensa a quanti locali o rassegne sono nati ultimamente con un nome romagnolo! Non accadeva in passato».
Non c’è, però, anche un rischio di «memizzazione» o banalizzazione eccessiva?
«C’è, ma nella stessa misura in cui anche le pagine facebook dialettali, così come le canzoni e la comicità, possono essere belle o brutte, triviali o profonde. A me della Romagna interessano anche folklore e tradizioni, ma in genere ai ragazzi interessa solo la lingua. Ed eventualmente l’attitudine che si accompagna al dialetto romagnolo. Credo che si debbano eludere le ‘contestualizzazioni’ un po’ stantie nelle quali per troppi anni abbiamo relegato il romagnolo».
La poesia dialettale colta dei santarcangiolesi è stata probabilmente l’ultima rivoluzione…
«E risale sostanzialmente anni ’60 e ’70, anche se il successo è arrivato dopo. Loro colsero il declino del romagnolo nel parlato comune e trasferirono il dialetto nella poesia. Fu dirompente: la lingua degli analfabeti diventava aulica! La breccia che hanno aperto va alimentata, ma credo che oggi non sia più la poesia il canale migliore. Più che la sopravvivenza come “lingua colta”, io vedo il futuro del dialetto nel bilinguismo. Per i giovani è come l’inglese. È una grande opportunità, anche perché in effetti parliamo di una lingua peculiare e bellissima. Che le opportunità le merita».

Info Rumagnulesta su Instagram, Fabrizio Caveja Barnabé su Facebook, 3391669806.
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