Chiudono teatri e cinema. Il parere di Franco Masotti di Ravenna Festival
Elena Nencini
L’aria che si respira nel mondo dello spettacolo è molto pesante: Franco Masotti, uno dei direttori artistici di Ravenna Festival, è sconfortato dalla situazione emergenza coronavirus e dalla chiusura dei teatri. La Trilogia autunnale, ultima parte della manifestazione ravennate, mantiene allestito - dopo l’ultimo Dpcm - solo Faust rapsodia, che verrà messo a disposizione in streaming sulla piattaforma di ravennafestival.live (vedi box).
Masotti, cosa ne pensa della situazione?
«A parte lo streaming del Faust, che è comunque un modo per continuare a dare lavoro alle 200 persone coinvolte, io credo che lo streaming abbia i suoi limiti: uno spettacolo teatrale così diventa più simile a una produzione televisiva. Mantenere il Faust non è una cosa da poco, rimane un cantiere aperto con tutte le prove in corso. Quello che è importante in questo momento è pensare che non passi troppo tempo prima che di tornare a teatro, perché il teatro non è un luogo di registrazione e vive solo con la presenza del pubblico».
A quali scelte state pensando per il futuro?
«Sto pensando all’edizione 2021 di Ravenna Festival, sperando che si possa fare almeno quella. Nella situazione attuale il clima è cambiato rispetto a marzo, quando anche gli artisti si sentivano sospesi. Adesso la si sta vivendo in maniera un po’ diversa, con la sensazione che non sia stato giusto penalizzare il nostro settore».
Ci potrebbero essere soluzioni alternative?
«I succedanei che si possono offrire non aggiungono molto a quello che già c’era: 30 anni fa si ascoltavano i dischi, poi si sono potute vedere le opere, un modo di usufruirle in maniera diversa. Abbiamo visto anche, durante il periodo di lockdown, cose interessanti di sperimentazione, ma non credo si possa andare più in là».
Che domande vi state facendo?
«Tante, sicuramente. Anche a fronte delle limitazioni che abbiamo affrontato: mascherine, distanziamenti, abbiamo ridotto il numero delle persone e abbiamo dato prova di una bella disciplina. Però poi ti chiedi “ma se non fossero stati chiusi i teatri quante persone sarebbero venute?” Per l’opera o la concertistica il pubblico ha spesso una certa età ed è più a rischio di altri. Non vorrei essere distopico o apocalittico, ma da questa fase - che non so quanto sarà lunga - mi chiedo come ne usciremo».
La soluzione Netflix proposta da Franceschini potrebbe essere valida?
«Tutti abbiamo criticato la frase infelice di Franceschini, che disse che voleva mettere a disposizione una cifra importante affinchè ci fosse un Netflix della cultura. Come a dire che tutta la creatività confluisca e si concretizzi in produzioni di natura video o televisiva che possono essere fruite tramite un sistema come Netflix. Esistono già canali dedicate alle arti performative, come Rai 5, non c’è bisogno di inventarsi un altro Netflix. Questo cosa vuol dire per il piccolo quartetto d’archi o per la piccola compagnia teatrale? Produzioni artistiche finalizzate al video ci sono gia state: credo che questa definizione sia stata una scivolata. Ho l’impressione che le persone ai piani alti delle istituzioni sappiano poco di teatro, cinema e concerti, che non li amino particolarmente. In questo caso hanno chiuso i teatri senza che nessuno abbia detto qualcosa. Si da poco valore sia all’aspetto economico del mondo dello spettacolo sia a chi ci lavora, ma anche a chi veniva in Italia per vedere quello che produciamo e creiamo».
Che futuro si prefigura?
«Non so immaginare, da qui a un anno, nulla se non la possibilità di fare spettacoli all’aperto, come abbiamo fatto quest’estate. Ci saranno sostegni economici per pochi eletti e questo mi preoccupa. Ci possono essere pochi illuminati che dicono che l’arte è importante, ma ci sarà anche chi dirà che ci sono cose maggiormente indispensabili, come l’asilo e la pancia da riempire. C’è chi pensa “Le chiese sono aperte e le palestre sono chiuse”, la sensazione è che siamo tutti contro tutti».
Il mondo della cultura è unito in questa pandemia?
«Mi chiedo cosa ne pensano gli assessori alla cultura del fatto che i teatri, patrimonio della comunità, siano chiusi. Ci aspettiamo un altro anno di silenzio con teatri, auditorium e sale da concerto chiuse, con la preoccupazione di dire “ma per chi riapriamo tra un anno?”. C’è una generazione di ragazzi che sono costretti a casa e che ignoreranno i teatri. Se sarà difficilissimo riportare a teatro chi c’era stato, sarà ancora più difficile forlo con chi non c’è mai stato. Il Governo pensa agli indennizzi, ma noi siamo preoccupati e confusi di fronte a una situazione da cui è difficile vedere l’uscita fuori dal tunnel».
Il problema della chiusura dei teatri però è anche un problema di come consideriamo la cultura?
«Ne stiamo parlando molto, ma come ha detto il maestro Muti (vedi box), in fondo se i teatri restano chiusi viene visto come un mondo superfluo, assimilabile alle sale Bingo, quindi se ne potrebbe fare a meno per un bel po’. Non si percepisce la necessità dell’arte come bene primario e quindi si pensa che tutto sia sacrificabile. È un timore che abbiamo in tanti. E devo dire che in troppi stanno zitti, non ho sentito artisti di rilievo, musicisti, cantautori - a parte Muti - che abbiano commentato la situazione. Si sente veramente rassegnazione e assuefazione a questa pandemia».
In Emilia Romagna com’è la situazione?
«Siamo comunque in una situazione felice, viviamo in una regione che dimostra da sempre attenzione alla propria tradizione culturale, dove i teatri sono una parte forte di una storia. Ci sono città molto ricche a livello di produzione teatrale e musicale e quindi mi aspetto che anche qualche altra voce si faccia sentire. Mi piacerebbe che le voci si unissero e si facessero sentire, contro queste misure, ribadendo l’importanza della cultura e del teatro».