Riccardo Isola - La passione coltivata, nel vero senso della parola, quotidianamente. Un passaggio di testimone alla guida di un progetto imprenditoriale, agronomico, culturale e di un sogno arrivato improvvisamente come un fulmine a ciel sereno. Era il 2006 quando Serena e Ilaria si trovano a dover prendere in mano le redini e le sorti future di uno dei simboli vitivinicoli più importanti del territorio romagnolo: la cantina Stefano Ferrucci. Spirito di sacrificio, voglia di mettersi in gioco, amore e rispetto per una biografia famigliare hanno fatto e stanno tutt’ora facendo il resto. Ilaria e Serena sono così le giovani testimoni di un’enologia territoriale caparbia e tenace, passionaria e a suo modo fortemente identitaria. Siamo a Castel Bolognese, in località Serra, zona da sempre vocata all’agricoltura di qualità, tra cui non manca di certo anche il vino. Siamo nelle primissime colline di quell’Appennino che ancora non si staglia potente, elegante e calcareo verso il cielo. Siamo all’interno di un’azienda, di una famiglia e di una storia che hanno visto la qualità e la voglia di lasciare il segno essere i veri protagonisti e i veri obiettivi primari. E’ su questi binari che Serena e Ilaria, figlie di Stefano scomparso nel 2006, hanno deciso, seppur con formazione universitaria umanistica, di proseguire sul solco lanciato dal padre. E lo hanno fatto continuando a ottenere riconoscimenti da chi il vino lo ama, lo beve e lo sa capire.
Un testimone ingombrante ma ricco di soddisfazioni?
«Assolutamente si. Siamo alla guida, seppur ancora giovani, della cantina da 14 anni e lo facciamo interpretando a modo nostro quello che ci è stato lasciato da nostro padre. Lo facciamo con attenzione e dedizione a non snaturare nulla di ciò che abbiamo trovato, ma dando una nostra personale interpretazione ai vini che produciamo».
Di che produzione stiamo parlando e quali tipologie realizzate?
«Nei sedici ettari vitati dell’azienda abbiamo da sempre puntato soprattutto sull’identità vitivinicola locale e sui vitigni autoctoni. All’anno realizziamo circa 110/130.000 bottiglie suddivise in due versioni di Albana (una secca e una passita), Trebbiano, un blend bianco e quattro tipologie di Sangiovese (Base, Superiore, Mga e il Riserva)».
Cosa ha voluto dire prendere in mano le redini dell’azienda?
«Una scelta dettata dal cuore e dal rispetto nei confronti della storia della nostra famiglia. Un’eredità che non nascondiamo essere semplice né scontata ma che ci ha permesso di dare una nostra personale interpretazione ai vini che realizziamo».
Avete quindi guardato al passato per proiettarvi nel presente e soprattutto nel futuro?
«Ci stiamo provando. Basti pensare alle scommesse lanciate con il Sangiovese ‘Legio’ prima (era il 2016 ndr) e oggi con l’Albana ‘A lei’ (2018 prima annata). Sono due nostre ‘creature’ di cantina. Esperimenti dopo esperimenti, prove su prove ci hanno permesso di disegnare mappe organolettiche tutte nostre e personali. Si può e si deve assolutamente migliorare ma siamo sulla strada giusta».
In che senso concretamente?
«I gusti dei consumatori sono cambiati. E’ anacronistico pensare oggi di voler continuare a realizzare firme enologiche che non sono più recepite positivamente da chi poi, alla fine, il vino lo compra e lo beve. Ecco quindi che alla potenza e alla muscolosità abbiamo voluto sostituire pulizia, gentilezza ed eleganza al sorso. Sono accorgimenti che sembrano banali ma il vino non lo fa solo il vignaiolo, lo fa il terroir con tutte le incognite che ogni anno riserva».
Vale anche per sua maestà il Domus Caia?
«Assolutamente. Anche il figlio maschio di famiglia, come piaceva definire il Domus Caia a nostro padre, è cambiato. Si è adeguato e lo abbiamo fatto, senza nascondere che sia una delle cose più difficili che abbiamo e che continueremo ad affrontare viste le sempre grandi attese che ci sono attorno a questo vino, pensando che fosse giusto così. Non ha però perso la poetica, la grandissima attenzione riservata a tutti i passaggi agronomici, tecnici e di lavorazione, ma si è saputo reimpostare seguendo una migliore afferenza con quelli che sono i palati, i gusti e le esigenze del mercato di oggi. Ripetiamo, non è cambiato il Domus Caia è stato solo ammodernato».
E il Bottale?
«E’ forse la punta di diamante in assoluto della nostra piccola cantina. Rappresenta un’altra interpretazione delle uve di Sangiovese, anch’esse rigorosamente scelte e sottoposte ad appassimento naturale, pigiate e lasciate in prolungata macerazione sulle vinacce. Solo grandissime annate vengono imbottigliate. E rigorosamente in versione Magnum, come aveva stabilito nostro padre nel 1999. In commercio ora arriverà il 2015 e aspettiamo i feedback di chi vorrà provarlo».
L’Ais vi ha riconosciuto il Tastevin, ve lo aspettavate?
«E’ stata una grande emozione essere tra le 22 cantine a livello nazionale premiate a Roma. Un grande traguardo che onora e gratifica tutti gli sforzi fatti da nostro padre prima e da noi tutte oggi».