Casa delle Culture di Ravenna, va in pensione Antonella Rosetti

Romagna | 15 Ottobre 2019 Cronaca
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«Concludo dove ho iniziato 42 anni fa con il Centro di animazione e la biblioteca decentrata. Proprio qui, in queste stanze, dove nel 2002 è nata la Casa delle Culture, che saluterò il prossimo 31 maggio 2020, quando andrò in pensione». A raccontare la propria vita e quella di buona parte del mondo
legato al sociale e all’immigrazione ravennate è Antonella Rosetti, responsabile della Casa delle Culture di piazza Medaglie d’oro, che da sempre lavora
nell’ambito sociale e culturale. «La mia - racconta Rosetti - è stata una generazione di privilegiati. Sono cresciuta in un periodo in cui se avevi delle idee, c’erano grosse possibilità che le avresti realizzate. C’erano spazi di libertà e di crescita e, soprattutto, si aveva il privilegio di stare “con le mani in pasto
all’umanità”».
Appena diplomata, Antonella entra nell’ente pubblico. Dalla biblioteca decentrata, passa alla Circoscrizione Terza e poi a quella di Mezzano. Prosegue gli studi in pedagogia al Magistero, ma la vera formazione arriva attraverso un corso come operatore culturale di territorio: «L’Amministrazione - specifica Antonella - è sempre stata un grande sostegno per me sia come professionista, ma anche a livello umano». Poi nel 2002 arriva il momento della svolta: una nuova avventura con La Casa delle Culture. «Era in scadenza il mandato del sindaco Mercatali - continua Rosetti - e si doveva dare forma a quanto si era previsto: un servizio del Comune che si dedicasse alla questione immigrazione in chiave socio-culturale e non solo socio-assistenziale. L’idea era di creare un progetto incentrato sulla cittadinanza migrante a tutto tondo. Per me quello era un momento di grandi cambiamenti. Stavo per abbandonare un ruolo sicuro, gratificante e consolidato per uno in cui la mia formazione non era così precisa e mirata. Con il tempo si è rivelato, però, un passaggio salutare e un processo rigenerativo».
Sin da subito si delineano quelli che sarebbero diventati i maggiori campi di intervento: «La cittadinanza attiva, l’area educativa-pedagogica e quella culturale sono state le linee individuate sin dal primo anno di attività della Casa delle Culture». Una cittadinanza attiva che corrispondesse a un coinvolgimento e a una partecipazione reale delle persone: «Noi non volevamo creare un ghetto, ma un luogo che si aprisse alla città e ai cambiamenti che si stavano verificando».
All’inizio degli anni 2000 era forte la questione riguardante la mediazione culturale e linguistica: «Il Gruppo intercultura, formato da insegnanti e mediatori, cominciò a riflettere sul significato della mediazione. Iniziammo a lavorare con tutte le scuole dell’obbligo di Ravenna, Cervia e Russi per l’accoglienza e l’inserimento scolastico di studenti stranieri, dove il bambino, con tutte le sue peculiarità e necessità, era al centro del percorso. Nel giro di un paio d’anni
costruimmo tutte le buone prassi della mediazione culturalea scuola ed elaborammo un nuovo pensiero pedagogico che ci valse il premio della “Città del Dialogo”, nel 2008, da parte della Commissione Europea, come miglior pratica di mediazione». Circa un decennio dopo, il laboratorio «Chi è straniero?» mette a confronto la scuola dell’obbligo con le superiori: «Il laboratorio prese spunto dai bisogni rilevati e dall’incrocio con l’areapartecipativa. In quel periodo si formarono, infatti, la Rete civile antirazzista, il Comitato in difesa della Costituzione e tante altre realtà interessate ad intervenire e a costruire spazi educativi e di elaborazione del pensiero critico in un laboratorio di cittadinanza volto a porre le basi per un approccio critico al tema “straniero”, per mettere in discussione stereotipi aprioristicamente negativi attraverso informazioni di natura storicosociale, giuridica, culturale, nonché con un’esperienza d’incontro diretto con testimoni significativi». Per quanto riguarda l’ambito culturale sono due le iniziative di maggior valore: la Settimana contro il razzismo e il Festival delle Culture: «Ricordo che organizzammo il primo Festival al Pala de André. Era una sorta di bazar con artisti, musicisti, artigiani, commercianti, poeti, scrittori, ravennati e migranti che ci ha mostrato le molte possibilità dell’incontro interculturale. Ormai è diventato un appuntamento per tutta la città, che ci lascia sempre sospesi ­ no alla ­ ne, con un senso dell’ignoto, e, soprattutto, si tratta di un incontro che va molto al di là dei tre giorni di festa. Tutto il lavoro svolto è stato relativamente facile, perché sempre condiviso e sempre arricchito da tantissime visioni vivide e interessanti».
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