Vanda Budini racconta i culti romagnoli al teatro dei Filodrammatici

Faenza | 18 Marzo 2018 Cultura
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Federico Savini
«Parlare dei santi in Romagna, dopo tutto quello che si è già scritto sul tema, per me oggi significa mettere insieme la cultura popolare e quelle religiosa, raffrontandole e dando conto delle orazioni e delle cante dei pellegrini che hanno diffuso questi culti nel nostro territorio. E poi fare un po’ di chiarezza, mettendo i santi al loro posto!». E’ Vanda Budini la relatrice del prossimo «Lõn ad Mêrz» del teatro dei Filodrammatici di Faenza, che lunedì 19 alle 20.30 avrà per tema Da Sãnt’ Antõni de’ pôrch a Sä Zvãn dala zvola. Una digressione storica sul culto dei santi in Romagna affidata a Vanda Budini, insegnante, ricercatrice e anima del Museo Didattico del Territorio di S.Pietro in Campiano.
«Anzitutto, per delimitare il campo – spiega lei stessa – ho tenuto conto dei santi a cui sono intitolati i nostri paesi e più in generale dei protettori, ma parlerò anche di culti ormai scomparsi, o quasi, molto legati alla vita nei secoli scorsi ma rimasti fuori dai calendari. Il tutto attraverso orazioni e modi di dire dialettali».
Quanto antichi?
«Limitandosi alle orazioni dialettali, ce ne sono anche del 1600, e ovviamente i culti datano anche molto più indietro. Alcune di queste orazioni probabilmente non hanno origini romagnole, ma venivano comunque imparate a memoria e adattate dai nostri avi, che le ascoltavano dai pellegrini. Esistono varie raccolte, a partire da quella fondamentale di Umberto Foschi, e anche l’Istituto Schürr ha pubblicato materiale nel merito, senza contare il Calendario di Baldini e Bellosi»
I santi più importanti?
«Ce ne sono molti e su alcuni di loro, ad esempio il celeberrimo San Martino, si potrebbero dedicare intere serate, e lo stesso vale per le Madonne. Ad ogni modo Sant’Agata oggi è poco ricordata ma sovrintendeva alla conservazione del latte, quindi nel mondo antico era importantissima. In Romagna è notoriamente venerato San Giorgio, ben presente nelle illustrazioni dei carri. Un segnatempo importantissimo era poi San Giovanni Battista, legato alle piante medicinali e quindi alla salute. Esiste un’orazione antica che testimonia anche il suo ruolo di garante dell’onestà fra compagni e dei padrini in particolare. Oggi la figura del padrino è secondaria, ma un tempo quel patto era considerato sacro, esistono racconti e modi di dire dialettali che lo testimoniano. Da bambini, se si veniva accusati di imbrogliare, con la formula San Giovanni porta inganni si era tenuti a dimostrare la propria onestà».
E poi c’è Sant’Antonio…
«Sãnt’ Antõni de’ pôrch è forse il santo per eccellenza in Romagna, che lo venera secondo una tradizione diversa rispetto alla sua agiografia classica. Dalle nostre parti Antonio è figlio di due pellegrini che avevano fatto voto di non guadagnare mai denaro, ma con la nascita del bambino le cose si complicano e Antonio si lega al Diavolo, diventa una sorta di portinaio dell’Inferno, anche se la sua rettitudine lo fa comunque diventare santo. E’ rappresentato col fuoco vicino per questa ragione. Inoltre, è praticamente il nostro Prometeo: secondo la leggenda fa entrare il suo maialino all’Inferno, da un pertugio, e l’animale spazientisce il Diavolo al punto che Antonio viene chiamato a riprenderselo. Così, ne approfitta per rubare il fuoco e darlo ai contadini per scaldarsi. In Romagna ci sono favole e preghiere su questo episodio»
Ci sono culti diffusi solo localmente?
«Sono molti, spesso i soli abitanti di un paese ne sono al corrente. San Zaccaria è uno dei più peculiari, perché era un prete ebraico, quindi non battezzato, ma santificato insieme a santa Elisabetta in quanto genitori di San Giovanni Battista. Il nome del paese risale al nono secolo ed è legato al culto del Battista, a cui sono intitolate alcune cappelle vicine. San Pantaleone di Castiglione si richiama a un santo medico e questo si spiega data la prossimità di quel territorio alle paludi».
E culti dimenticati?
«Uno dei più clamorosi è San Fabiano, più noto come Sant’Alessio, del quale sono state raccolte la bellezza di 22 orazioni»
Ecco, si diceva di «mettere ordine tra i santi»…
«Sì, abbiamo il brutto vizio di far confusione, facendo derivare le caratteristiche dei santi dal loro nome. Santa Liberata, ad esempio, viene comunque intesa come la santa della “liberazione dai problemi” ma non è così. A Como c’è una tomba con una raffigurazione attribuita a Santa Liberata, che però riguarda una priora benedettina che fuggì da Modena, per evitare un matrimonio combinato, e a Como fondò un convento. Per venerare i santi occorrono delle icone e probabilmente la figura di quella priora, di cui non si conosceva la storia, fu identificata con Santa Liberata. Probabilmente il culto originario della santa aveva a che fare con la famiglia ma da noi assunse un significato diversissimo, veniva invocata per avere una morte tranquilla. Solo che organizzare una messa a Santa Liberata era difficile».
Come mai?
«Perché si sospettava che l’invocazione venisse fatta perché il congiunto si liberasse in fretta del malato per avere subito la sua eredità. Quindi la quota della messa per Santa Liberata andava raccolta in centesimi, a testimoniare che la comunità – ogni persona versava singolarmente un centesimo – non giudicava quella messa come una manovra opportunistica!».
L’anticlericalismo romagnolo come ha convissuto con culti così antichi?
«Con la nazione italiana in Romagna, specie nella Bassa, c’è stata una laicizzazione radicale, ma questi culti sono stati custoditi da nonne e bisnonne. Basta far caso alle bestemmie, che in Romagna sono spesso fantasiose, ma quasi mai vengono indirizzate ai santi. Non esiste contadino laico che non abbia Sant’Antonio nella stalla. E’ difficile parlare di “religiosità” in questi casi, è superstizione a tutti gli effetti, ma testimonia il radicamento di questi culti».
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