Federico Savini
«Da diversi anni lavoro molto in Romagna. È una terra vicina alle tensioni della cultura meridionale, nel bene e nel male. L’accoglienza, il gioco e il divertimento fanno parte del dna dei romagnoli, e anche per questo non mi stupisco quando mi sento a casa da queste parti». Ambrogio Sparagna, l’artefice massimo del rilancio della taranta salentina, animatore del parco della Musica di Roma e tante altre cose, è «il grande ospite che ancora mancava» che segnerà l’edizione 2018 di «La Musica nelle Aie», con la sua «Taranta d’Amore», nella serata di sabato 12. La sua prima volta al festival di Castel Raniero non significa, però, che Sparagna non conosca l’evento, uno dei punti di riferimento per l’intero ambito del folk in Italia.
«E’ un festival molto importante, che parla alla nazione e lo fa da una prospettiva molto romagnola - dice Sparagna - e proprio per le similitudini che dicevo prima mi sembra bello e coerente portare la taranta a Castel Raniero. Per me questa musica, al di là dei formalismi, fa parte dell’identità di tutta la nostra nazione».
In un senso, diciamo, più attitudinale che stilistico?
«Sì, l’approccio a questi balli salentini unisce e crea gioia, una partecipazione condivisa che annulla il distacco tra musicisti e ascoltatori, qualcosa che a Castel Raniero si tocca con mano. Ed è proprio in Romagna in generale che trovo grande sintonia con il “mio” mondo. D’altra parte, la Notte delle Taranta che facemmo a Russi, a palazzo San Giacomo, la ricordo ancora come una delle serate più belle da quando porto avanti questo progetto».
Quale pensa che sia lo stato di salute del folk in Italia?
«Mi pare eccezionalmente in salute! C’è grande vivacità e l’esperienza che porto avanti al Parco della Musica di Roma mi dice che in 11 anni abbiamo venduto oltre 60mila biglietti. C’è un interesse generale per la riscoperta della musica popolare, nonostante un affievolimento del fenomeno della taranta. In tante regioni – non solo meridionale, ma anche il nord di Piemonte, Veneto e pure la Romagna - c’è grande attenzione e un pubblico molto giovane. Una cosa bellissima, che rinnova davvero quell’approccio troppo ideologizzato che si è riservato a questa materia fino agli anni ’70. E’ appena uscito un pezzo di Biagio Antonacci con i fratelli Fiorello e il coinvolgimento del cantante folk siciliano Mario Incudine. Fino a qualche anno fa un simile matrimonio sarebbe stato inimmaginabile».
Da qualche anno lavora anche sulle cante romagnole. Con quali obiettivi?
«E’ una ricerca che mi sta molto a cuore. Mi riferisco alle canta contadine tradizionali, quelle che esistevano prima delle manipolazioni di Spallicci, per intenderci. E’ particolarmente affascinante l’impianto poetico di queste cante, la relazione che testimoniano fra narrazione e ambiente; le stesse linee melodiche sono connesse alla descrizione del territorio romagnolo. Sto cercando di ricostruire l’origine più antica di questi canti e mi soffermo molto sul testo, perché nella sostanza in un ambiente contadino povero di rudimenti musicali il testo era la cosa più importante. Vedo molte affinitò con l’opera di Pascoli, e non escluderei affatto che il poeta abbia tratto ispirazione dalle cante contadine. Hanno molti elementi originali, ad esempio la centralità degli animali, che spesso sono protagonisti, andando a costituire delle metafore peculiari di questa tradizione. Ad esempio la Cicala è un personaggio ricorrente. Penso davvero che si debba tornare alle cicale per raccontare la Romagna».