Il regista Alessandro Serra racconta il suo «Macbeth» «sardo» al teatro di Faenza

Faenza | 20 Marzo 2018 Cultura
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Elena Nencini
Arriva mercoledì 21 alle 21 al teatro Masini di Faenza Macbettu, un originale spettacolo di Alessandro Serra, vincitore del premio Ubu 2017 quale «migliore spettacolo dell’anno», tratto dal Macbeth di William Shakespeare. Un Macbeth recitato in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini. La lingua sarda non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze.
Serra, come le è venuto in mente di ‘contaminare’ Shakespeare con la Sardegna?
«L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia. I suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti.  Le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo.  Ma soprattutto il buio inverno. Sono sorprendenti le analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna.  In realtà non si tratta di una contaminazione. Ho cercato di estrarre dall’opera gli elementi universali riscontrabili in ogni anfratto del mondo e dell’animo umano. Mi riferisco agli archetipi e ai meccanismi della natura umana. La Sardegna mi ha fornito la materia,  la cenere, il sughero, il ferro, le cortecce degli alberi, il codice barbaricino, l’ironia pungente dei carnevali, e poi le pietre che si fanno arma, nuraghe, ma soprattutto suono, grazie alle opere di Pinuccio Sciola».
Cosa la colpisce del personaggio di Macbeth?
«Più volte mi sono domandato da dove nascesse questa mia attrazione per il personaggio Macbeth, che, come affermava Emil Cioran, a suo modo è un grande pensatore, come Amleto. Lo si deve leggere bene perché c’è qualcosa che dice, al di là delle circostanze, di una profondità devastante. La vita è solo un’ombra che cammina. Mi ritrovo ossessionato da un individuo, il cui grande limite me lo rende paradossalmente commovente. Macbeth pensa incessantemente al futuro, domani e domani e domani… Si proietta terribilmente in avanti e non riesce a vivere il presente, impazzisce per questo. È quasi un emblema di questa società accelerata, una società che va di corsa e che non è spiritualmente pronta ad accogliere una tecnologia che forse ci renderà immortali ma ci sta già consumando l’anima. Questo disperato non riuscire a vivere il presente mi fa sentire Macbeth vicino, vivo. Ma ancor di più forse la sua più grande debolezza che è la debolezza del nostro tempo: l’incapacità di sostenere il sovrannaturale. Quando il sovrannaturale entra in un essere che non ha sufficiente amore per riceverlo, dice Simone Weil, diventa un male. Le streghe che predicono a Macbeth un futuro di gloria sono foriere di prosperità, ma Macbeth non sa aspettare e di conseguenza uccide il re. Non c’è alcun motivo per cui debba compiere questo atto orrendo e inutile. Ecco, nel Macbeth c’è l’uomo moderno, proiettato in una corsa folle verso il futuro e incapace di riconoscere il sovrannaturale».
Ha vinto il premio Ubu con questo spettacolo. E’ un bel riconoscimento.
«Lo è. Il premio Ubu quest’anno ha compiuto 40 anni, non lo si poteva festeggiare in modo migliore. Siamo contenti e onorati di averlo ricevuto. Ma c’è stato anche il premio Anct dell’associazione nazionale Critici di Teatro e il premio più importante, quello del pubblico che ogni sera riempie i teatri e fa registrare sold out in tutta la penisola, oltre che ovviamente nella nostra isola. Macbettu è uno spettacolo assolutamente popolare».
Qual è la nuova produzione con Accademia Perduta?
«Accademia Perduta è la nostra seconda casa, al teatro Masini di Faenza e al Goldoni di Bagnacavallo torniamo sempre volentieri. Abbiamo collaborato a tre importanti produzioni e ci accingiamo a iniziare una nuova avventura. Si tratta de Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov. Abbiamo già iniziato una fase laboratoriale proprio nei teatri di Faenza e Bagnacavallo. Il debutto è previsto nella primavera del 2019».
Cosa apprezza della Romagna, una terra completamente diversa dalla Sardegna?
«I suoi abitanti, ovviamente. C’è un senso dell’ospitalità e una simpatia che dovrebbero essere annoverati tra i patrimoni dell’umanità. Due anni fa passeggiando per la val d’Orcia, chiesi informazioni per raggiungere un determinato luogo di cui non ricordo il nome; ebbene dopo alcune risposte monosillabiche ad un certo punto una coppia di romagnoli in vacanza in Toscana mi indicò non solo il luogo ma anche l’itinerario eno-gastronomico più consono per raggiungerlo. Il tutto con un entusiasmo e un piacere di far bene agli altri, di far bene alla vita, di assaporarla fino in fondo».
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