Alessandro Benvenuti è «L'avaro» di Molière al Goldoni
Elena Nencini
Venerdì 12 gennaio (ore 21) al teatro Goldoni di Bagnacavallo sul palco salirà Alessandro Benvenuti nei panni de L’avaro di Molière, con la regia di Ugo Chiti e la messa in scena di Arca Azzurra Teatro, con un testo alleggerito, tagliato, accelerato e intenso nelle implicazioni psicologiche.
Chiediamo all’attore toscano come si è trovato nei panni di Arpagone, l’avaro per eccellenza.
Come è il suo Arpagone?
«È particolare perché la scrittura di riadattamento di Chiti propone una versione molto modernizzata del personaggio. E’ una scrittura rapida, veloce, energica. Ed io gli ho dato una sorta di velocità tipica dei soldi di oggi. Più che parlare di un tesoro da nascondere l’Arpagone di oggi assomiglia maggiormente ad uno che fa finanza. Il suo dispiacere maggiore è che il figlio Cleante non capisca la bellezza dell’investire in finanza, della velocità con cui con un clic i soldi partano da una banca all’altra. Insomma in qualche maniera si parla anche di paradisi fiscali. La scrittura propone varie sfaccettature, dall’intimismo alla commedia dell’arte, ha tante anime. È un Arpagone decisamente comico. Non ha un’età, cambia età a seconda delle cose di cui parla: se cerca di trovare marito o moglie per i figli è vecchio, se parla di denaro è scattante, aitante. La secchezza con cui Chiti ha ridotto il testo, aggiungendo intrecci amorosi, il prologo e un epilogo, migliorano il prodotto originale che moriva tronco, senza un finale».
Tra i tanti attori che hanno interpretato Arpagone ce ne è stato uno che l’ha colpita?
«Si, no. Ho riflettuto su quello che è stato il lavoro di tanti grandi, ma io un’opinione molto alta. Mi piace molto rischiare. Ho una passione immensa per il teatro, fatta di rigore, disciplina, sono uno studente modello, quando preparo uno spettacolo. Mi dedico con un timore sacro che uccide la presunzione. Ci metto tutto me stesso cercando di essere grande come gli attori del passato. Ho patito un po’ perché mi sembrava che nel testo ci fossero delle cose poco chiare. Ma lo spettacolo è cresciuto tanto ed ho dato vita a un personaggio molto diverso dai grandi del passato».
Nel mondo attuale, dove l’interesse personale predomina su tutto, dov’è la speranza?
«La speranza è l’ultima a morire dice il proverbio. E’ costante, bisogna dare importanza alle cose di tutti i giorni, non a un uomo che dice di essere un genio (Kim Jong-un nda) o a un altro che ha un parrucchiere osceno che lo pettina come un fungo (Trump, nda). A parte il livello freudiano della metafora del bottone, fanno clamore, ma fa più bene la gente che sta in silenzio, che fa meno rumore. Sono importanti le persone meravigliose che vivono intorno a me, dai tecnici, alla mia famiglia. Fare teatro è un atto d’amore, portare a Bagnacavallo questo spettacolo è portare un pezzo di vita, per dare il meglio di noi stessi e creare lo stupore. Finche ci saranno sorpese nella vita ci sarà speranza».
È mai stato avaro di qualcosa?
«Non ho un carattere facile. Forse avaro d’affetto, ho problemi nel socializzare, un po’ sono timido per natura. Al di la di mia moglie e delle mie figlie che adoro, ho difficoltà a ‘mostrarmi’ verso gli altri. Non sono avaro di affetto, ma discontinuo. Non so coltivare le mie amicizie e questo mi dispiace».
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