IL CASTORO | Giacomo Matteotti: una morte annunciata. Intervista a Maria Lodovica Mutterle

Romagna | 24 Marzo 2024 Blog Settesere
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Greta Oretti
Nell’immaginario storico è rimasta scolpita la figura di Giacomo Matteotti che, il 10 giugno 1924, è stato rapito e assassinato da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. A casa lo aspettava la moglie Velia Titta, la quale, non vedendolo rincasare, ha immaginato fosse stato a causa di un’aggressione fascista. Infatti, con il discorso del 30 maggio 1924 alla Camera dei Deputati, Matteotti aveva firmato la sua condanna a morte. Velia sapeva che non era nell’interesse del regime far trapelare la verità sulla sparizione del marito e che spettava a lei fare luce sugli avvenimenti. Cinque giorni dopo l’accaduto ha incontrato il Duce a palazzo Chigi, certa che fosse lui il mandante dell’omicidio: «Eccellenza - gli avrebbe detto - sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo». Il corpo di Giacomo Matteotti è stato rinvenuto solamente a due mesi dal rapimento. Dopo averlo sepolto, Velia ha continuato a chiedere la verità su cosa fosse veramente accaduto quel giorno di giugno. Per ricordare questa donna, i cui sforzi hanno contribuito a farci conoscere le violenze dell’epoca fascista, abbiamo intervistato Maria Lodovica Mutterle, direttrice della Casa museo Giacomo Matteotti di Fratta Polesine, che si occupa di preservare la memoria del politico e della sua famiglia.
Com’è stata l’infanzia di Velia e dove si è formata?
«L’infanzia di Velia non è stata facile, perché il padre Oreste Titta ha abbandonato la famiglia per un’altra donna, quando lei aveva 10 anni, ed è rimasta orfana della madre Amabile Sequenza quattro anni dopo, appena quattordicenne. Essendo la più giovane di sei fratelli, è stata cresciuta dalla sorella Fosca, la maggiore, ma soprattutto dal fratello Ruffo, celebre baritono, che ha assunto il ruolo della figura paterna. La sua istruzione è avvenuta in collegi religiosi e poi ha conseguito la licenza alla Scuola Normale femminile di Pisa, coltivando sempre una vena artistica da poetessa e romanziera».
Come ha conosciuto Matteotti?
«Nel 1912 Velia, mentre stava trascorrendo un periodo di vacanza a Boscolungo sull’Abetone, ha conosciuto Giacomo, di cinque anni più anziano di lei. È stato un colpo di fulmine: hanno scoperto un’affinità culturale e un comune sentire etico, pur nella diversità di idee religiose. La ricca corrispondenza epistolare, nel periodo del fidanzamento fino al matrimonio civile, svoltosi in Campidoglio, l’8 gennaio 1916, ne è testimonianza».
Era preoccupata che le dichiarazioni del marito potessero essere rischiose?
«Era consapevole che Giacomo aveva una grande passione per la politica, con la quale ha dovuto convivere negli anni trascorsi insieme, come traspare dalle lettere, in cui la sua preoccupazione e le sue difficoltà di moglie e madre di tre figli non mancano di emergere. Giacomo, dal canto suo, la rendeva partecipe dei suoi impegni politici, cercando sempre di non accrescerne l’ansia. Anche nei momenti peggiori, le scriveva che tutto sarebbe finito presto, speranzoso di una prossima serenità familiare. Ma a Velia non bastavano le parole di Giacomo, perché sapeva del rischio che il marito correva già nel 1921, quando era stato aggredito a Ferrara dai fascisti, tanto che gli scriveva: “Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costarti la vita”. Il marito rischiava la vita e la sua famiglia non veniva risparmiata dalle attenzioni dei fascisti: nel 1922, a Varazze, dove Velia si era rifugiata con i tre figli, ha ricevuto minacce lei stessa: “Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono neanche le famiglie più. Non so altro perché fuori non vado. Insultano sulla strada come fossimo la peggior gente di spregio”».
Velia ha chiesto spiegazioni a Mussolini sulla scomparsa del marito. È per questo che è stata sorvegliata dal regime?
«Nell’incontro con Mussolini, Velia ha dimostrato la sua forza, la sua determinazione nell’affrontare colui che era il mandante dell’assassinio del marito e nel chiedere la restituzione del cadavere di Giacomo alla famiglia. Il motivo, però, della sorveglianza di Velia e dei figli era dovuto al fatto di essere stata la moglie di colui che aveva osato sfidare Mussolini in parlamento, denunciando la violenza del fascismo e la pericolosa transizione verso la dittatura. È stata la moglie di un uomo che, con il coraggio dimostrato fino al sacrificio della vita, è divenuto un mito nell’immaginario antifascista, tanto pericoloso da morto come da vivo. Anche lei ha rappresentato un punto di riferimento per gli oppositori di Mussolini. Proprio per questo il regime l’ha sorvegliata e Velia, come ha scritto in una lettera, si è sentita prigioniera per tutta la vita».
Qual è stato il contributo di Velia alla ricerca della verità sul caso Matteotti?
«Velia, prima di tutto, non fidandosi delle notizie giornalistiche, ha voluto essere informata direttamente delle indagini che si svolgevano sul presunto rapimento del marito. Ha affidato l’incarico della documentazione fotografica al reporter Adolfo Porry Pastorel, le cui foto ha conservato in un album a perenne ricordo. In seguito, dopo l’arresto dei responsabili dell’assassinio, si è costituita parte civile al processo, fino a quando non ha compreso che si sarebbe trasformato in una vera e propria farsa di regime con lo spostamento, dettato da una supposta incompatibilità ambientale, da Roma a Chieti. Inoltre la difesa di Dumini, il principale imputato, era stata affidata al Ras di Cremona, Roberto Farinacci, segretario del Partito Nazionale Fascista. Un verdetto già scritto, insomma, tanto che il 18 gennaio 1926 la famiglia Matteotti si è ritirata dal procedimento giudiziario. In una lettera al presidente del tribunale Velia scriveva: “Ciò che mi resta non è che l’ombra vana di un vero processo. Non avevo rancori da esprimere o vendetta da invocare; volevo solo giustizia. Gli uomini me l’hanno negata, l’avrò solo dalla Storia”».
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