Natale, i «mangiari» della festa nella tradizione romagnola

Romagna | 24 Dicembre 2017 Le vie del gusto
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Il cappelletto in Romagna e il tortellino nelle terre di confine con l’Emilia, sono le minestre ripiene che nella storia della cucina del territorio rappresentano un must da servire sulle tavole durante le festività natalizie. Due gioielli dell’artigianalità in cucina che acquistano differenze, nell’impasto soprattutto, da territorio a territorio, in alcuni casi, a dir la verità, queste differenze le si trovano addirittura da cucina a cucina. La differenza sostanziale, oltre al metodo di chiusura della pasta attorno alla farcia, tra questi due simboli della cucina regionale,è rappresentata dagli ingredienti che compongono.
In Romagna, nel cappelletto ci va il formaggio, in Emilia invece si utilizza la carne.
Per lo storico delle tradizioni Giuseppe Sangiorgi «Da un’indagine risalente  dall’amministrazione napoleonica in Romagna all’inizio dell’800 risulta che a Natale ‘si fanno cappelletti, minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia di lasagne’. Il cappelletto romagnolo tradizionale – spiega Sangiorgi - non prevede l’uso di soli formaggi in quanto la Romagna è la terra della pecora, mentre l’Emilia è la terra del maiale e per questo i tortellini hanno il ripieno di carne. Nell’imolese, terra di confine si fanno i cappelletti con la forma di quelli romagnoli ma con il ripieno di carne». Sull’origine Sangiorgi ricorda come «questa minestra nasce dalla vicinanza del Natale al solstizio d’inverno, corrispondente al punto più profondo della stagione buia, momento propizio per i rituali che richiamano il ritorno pieno della luce e del calore, cioè della vita. Rappresentata appunto dai cappelletti, minestra gravida, con una gran pancia per contenere il ripieno che costituisce la parte più importante dal punto di vista simbolico e del sapore. Da qui l’opportunità di tagliare la sfoglia in cerchi e non a quadri perché in quest’ultimo caso, dopo l’avvolgimento, rimane un triangolo di sfoglia, inutile e non particolarmente appetibile».
Tra gli ingredienti fondamentali, anche qui con diverse differenziazioni tra territorio e territorio, per la preparazione del primo piatto per eccellenza delle festività natalizie (cappelletto o tortellino che sia) c’è il brodo. Cultore della materia e grande conoscitore della ricetta è lo chef stellato faentino Silverio Cineri che ricorda come questo debba essere rigorosamente realizzato utilizzando materie prime ruspanti e di grande qualità. «Gli ingredienti per 4 persone – spiega lo stesso Cineri – serve un pezzo di manzo «cappello del prete» da 100 gr, una coscia di gallina, una costa di sedano, una carota, una foglia di cipolla tostata sulla piastra, un pomodorino e un pizzico di sale grosso di Cervia. La preparazione – aggiunge – si deve porre sul fuoco una pentola capace, piena d’acqua fredda, dove vi si pongono dentro tutti gli ingredienti e si porta piano piano a bollore. Lo si fa bollire, mi raccomando piano e semicoperto per almeno due o tre ore poi lo si passa con un torcione lasciandolo riposare». L’eccezione ovviamente esiste anche qui, soprattutto in procinto dell’arrivo del Natale quando, per rendere il brodo più saporito, si usava e si usa il cappone. Questo è quanto oggi si sa su questi rappresentanti imprescindibili delle tavole emiliano-romagnole a Natale. Un punto fermo che acquista differenze di interpretazione su scala domestica ma su una cosa mette d’accordo tutti: sia i tortellini che i cappelletti vanno serviti rigoroso mante in brodo.
«Per queste festività – lancia invece la sua provocazione gastronomica Graziano Pozzetto - è ora di sfatare il mito della non presenza del maiale in Romagna. La Mora, l’esemplare locale del maiale romagnolo, c’è sempre stata ed è buonissima. Anche oggi. Per cui non posso che invitare chiunque abbia voglia di godere delle gioie del palato di portare sulle tavole delle feste questo straordinario giacimento di gusto e sapore. Dalla salsiccia fresca messa a «sudare» sotto la cenere fino ad arrivare alle cotiche io suggerisco di farsi fare il vero cotechino di maiale dal macellaio di fiducia e nella sua acqua di cottura lessare le patate. Un’antica e grande saggezza culinaria delle case contadine che lascia ancora oggi tutti di stucco. Per non dimenticare – conclude il gastronomo romagnolo – le succulenti consistenze dei ciccioli o della coppa di testa, parti minori, si direbbe, ma che regalano apoteosi e ricchezza di sapori in un pranzo con la P maiuscola».
 
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