Faenza, lo stato di salute del vino in Romagna secondo Giovanni Solaroli
Il vino romagnolo sta attraversando una fase particolare, per certi versi favorevole e incoraggiante. Cresce l'interesse generale del mercato e della critica verso la produzione di vini che da Rimini a Faenza identificano la storia enologica di questo territorio. Cresce l'attenzione ma di spazi di manovra e qualificazione ulteriore non mancano. Per fotografare lo stato dell'arte abbiamo sentito il sommelier, giornalista e referente della guida nazionale «Vitae» Giovanni Solaroli.
Qual è lo stato di salute della Romagna oggi?
«I colossi della cooperazione si stanno difendendo con le unghie e con i denti per mantenere una posizione sul mercato. Realtà molto aggressiva i cui competitor provengono da Paesi che forse li aiuta più di quanto non faccia il nostro. Sul mercato Premium invece lo stato attuale mi pare meno buono».
Il Romagna Albana Docg sta riconquistando visibilità. Cosa serve per aiutarne la crescita?
«Che i produttori inizino a credere veramente all'Albana. Le superfici sono in calo, una tendenza che si manifesta da parecchi anni. Il fatto che si sia creato un master sull’Albana è il segnale che c’è un risveglio. Ora si tratta di non bruciare quest’occasione».
Un'azienda locale ha ottenuto con un’Albana un riconoscimento storico, può rappresentare una nuova interpretazione?
«Io non parlerei di un vera e propria nuova interpretazione quanto di un modo più consapevole di sfruttare la plasticità del vitigno. Ma non per l’uso dell’anfora il cui contributo al vino Albana ritengo sia ancora in fase di osservazione, quanto piuttosto per il ritorno a una macerazione sulle bucce più significativa. Ci sono parecchi produttori che si stanno spendendo in questo senso, anche se non tutti passano il vaglio delle commissioni e quindi non risultano Albana. Questo è un grande peccato».
Il Romagna Sangiovese è il simbolo della Romagna, tante sottozone per identità diverse. Un pregio o un difetto?
«Nessun vitigno può rappresentarci meglio dell’Albana. Tuttavia sul fronte dei numeri il Sangiovese primeggia. Per cercare di accontentare tutti si è persa un’occasione per mappare le aree. Oggi ci sono troppe possibilità di etichettare un Sangiovese e questo porta ad un disorientamento nel consumatore. Infatti bisogna evidenziare che nel mondo non tutti sanno nemmeno dov’è l’Emilia Romagna, figuriamoci la sottozona Serra o Meldola».
C’è una crescente voglia di riscoprire gli autoctoni e vinificazioni particolari (ancestrale, macerazione) cosa ne pensa?
«Dipende cosa si intende per autoctono: l’Albana è il nostro autoctono per eccellenza. Il processo di riscoperta degli autoctoni «dimenticati» risponde al desideri di provarli con le tecnologie di cui si dispone e di proporsi al mercato con delle novità, con dei vini originali ed unici. In qualche caso si fanno prodotti davvero interessanti, come il Centesimino, il Famoso, e lo stesso Longanesi non è privo di attrattiva. Si tratta comunque di piccoli numeri. Sulle vinificazioni sì, ci sono alcuni che ripropongono metodologie che si richiamano al «buon tempo che fu» , ritengo sia un bel modo di mettersi alla prova».
Cosa serve al comparto per iniziare a parlare in coro?
«Spetta ai produttori trovare la propria via e darsi un disciplinare e questo deve essere chiaro. Il ruolo del Consorzio è però fondamentale per tutelare e promuovere i vini di una o più denominazioni. Solo l’unione delle forze da parte di tutti potrà consentire di affrontare le sfide future con efficacia».