Elena Bucci a Venezia nel film di Guadagnino, con Ralph Fiennes, Tilda Swinton e Corrado Guzzanti
«Entrare all'improvviso in una produzione di questo genere è sconvolgente. Per la qualità e l'esperienza degli attori e delle maestranze. La macchina va molto veloce e tutti danno per scontato che ognuno sappia cosa succede in ogni momento. Il primo ciak è stato da brivido, con Tilda Swinton e Ralph Fiennes, persone generose con le quali è un piacere lavorare, e dovevo recitare in siciliano. Quando ho chiesto sottovoce all’aiuto fonico italiano cosa stava succedendo, lui ha fatto in tempo a dirmi che forse si stava cominciando a girare!». La russiana Elena Bucci è una delle attrici più quotate a livello nazionale nel teatro di ricerca, calca le scene da trent’anni, ma l’emozione è palpabile nel racconto della sua prima partecipazione a un film di produzione internazionale, che le ha fatto pure calpestare il «red carpet» del Festival di Venezia. La Bucci fa infatti parte del cast di A bigger splash di Luca Guadagnino, in concorso al Lido e proiettato domenica 6. Sorta di remake de La Piscina, noir del ’69 con Alain Delon e Romy Schneider, il film (che ha diviso la critica) vede la Bucci sul grande schermo insieme a star internazionali come Tilda Swinton, Ralph Fiennes e Dakota Johnson e pure Corrado Guzzanti.
«Ho conosciuto Luca a Roma, quando ancora lavoravo con Leo de Berardinis – racconta Elena Bucci -. Non ricordo se sia stato in occasione delle repliche al teatro Quirino de Il ritorno di Scaramouche, spettacolo indelebile nella memoria di chi l'ha visto, o in occasione della trilogia dedicata a Re Lear, dove, in costume da bagno e tacchi alti, duellavo con Leo a ritmo di flamenco. In uno interpretavo il personaggio della Morte, creatura da fumetto che lamentava la sua solitudine, danzava e si commuoveva sul destino degli umani, nell'altro la perfida Gonerill che scaccia il padre dal trono e dal cuore. Luca era agli inizi della sua carriera di regista e molto amico di Fabrizia Sacchi, attrice intensa e fantastica compagna di lavoro. Fu colpito dal mio modo di stare in scena e condividemmo sogni e desideri. Come a volte accade, quasi per caso, per un attimo si incrociarono i destini di molti di noi in un solo tempo e in un solo luogo. Stella Savino, che si è occupata del casting e che a sua volta era un’ammirata spettatrice e un'amica, ha contribuito a farci ritrovare. Era giovanissimo, ma già estremamente determinato e preparato. Pieno di estro e coraggio, aveva già la capacità di pensare in grande e di creare e realizzare progetti molto ambiziosi e originali».
Che ruolo interpreti nel film?
«Luca mi ha quasi teso una trappola. Prima ha insistito perché ci fossi e poi mi ha detto che avrei dovuto interpretare il ruolo di una donna pantesca che cura la tenuta e i dammusi (le antiche case pantesche costruite in pietra e rivalutate negli ultimi decenni dallo sguardo di importanti architetti giunti nell'isola innamorati della sua bellezza schiva e aspra) nei quali alloggiano 'gli stranieri' e che a poco a poco si appassiona alle loro vicende, a modo suo, senza parere. Io, romagnola, dovevo diventare siciliana e isolana!
Come fare? Stavo sulla grande terrazza dell'albergo in riva al mare quando, per fortuna, mi viene in mente di chiedere aiuto a una ragazza che lavorava lì. In pochi giorni sono stata adottata dalla famiglia degli albergatori che non solo mi hanno circondato di cure e del suono del loro speciale siciliano, ma sono rimasti fedelissimi amici. Loro hanno una casa in Romagna e io ne ho una a Pantelleria. Condividiamo lo stesso modo di essere ombrosi ed accoglienti, dolci e ruvidi allo stesso tempo.
Corrado Guzzanti ed io eravamo gli unici attori italiani. Lui interpreta un maresciallo davvero singolare, come soltanto lui sa fare. Io mi sono ritrovata in un ruolo molto diverso da tutti gli altri che amo interpretare, sia per ampiezza che per natura, ma che mi ha insegnato ad immergermi totalmente, anche se in tempo breve, in un’altra lingua (perché questo sono i nostri dialetti in Italia) e in un’altra cultura.
Corrado ed io ci siamo ritrovati a Venezia consapevoli entrambi che, dato che il primo montaggio del film era di quattro ore, la riduzione a due ore soltanto, richiesta dalla produzione, non avrebbe potuto non toccare i nostri personaggi, che avevano una dinamica molto interessante, ma che non erano sempre essenziali nel percorso della storia.
Nonostante sia stata una bellissima esperienza e abbia avuto il piacere di lavorare con grande soddisfazione di tutti e anche mia con attori straordinari in molte scene, purtroppo quello che è rimasto nel film non corrisponde all’intensità vissuta sul set. Comunque alcune scene molto intense, non soltanto mie ovviamente, le conservo nella memoria dell’esperienza anche se non ne resta nulla. Il teatro mi ha abituato a questa continua perdita».
Fai parte di un cast internazionale, con attori dai profili molto diversi. Che tipo di esperienza umana e professionale è stata questo film? Quali ricordi porti con te e cosa pensi di poter aver imparato da questa esperienza?
«Sono rimasta incantata per ore nel guardare il funzionamento della macchina del set. Un micromondo di centinaia di persone impegnate nella follia di rendere concreto un sogno acchiappando al volo l'immagine giusta, fermando per sempre, o illudendosi di farlo, l'emozione. Nonostante la presenza di grandi divi, si respirava sul set un clima di grande vicinanza e familiarità. E i ricordi sono davvero molti, troppi per tentare di sceglierne uno solo. Inoltre mi pare quasi di tradire un’intimità e un segreto, narrando di situazioni divertenti, emozionanti, aspre che hanno affollato la storia del film. In un mondo che si nutre di pettegolezzi, esiste anche una solidarietà nel mantenere segreta l’intimità dei set. Ho imparato moltissimo. Prima cosa fra tutte che quest’arte estremamente narcisa insegna la necessità della continua umiltà. L’errore è sempre vicino, l’azione corre sul filo del rasoio, non si è mai pronti. Allo stesso tempo ho capito che, oltre a prepararsi, bisogna osare, cercando con forza la proprio autentiità, sempre e comunque, cercando una pratica di concentrazione che possa resistere allo sguardo di tanta gente che agisce intorno a te. Ho adorato poter osservare la preparazione delle scene, sia da parte del direttore della fotografia, che da parte del suono, degli effetti speciali, del regista certo e poi degli attori. Ho visto la concentrazione, la tensione, la paura, il divertimento, la passione. La vera esperienza per me è stata quella che è passata dall'osservazione».
Erano anni che non partecipavi a un film. Fermo restando che il teatro resta largamente la tua attività principale, cosa ti piace del cinema?
«L’ultima esperienza cinematografica è stata un mediometraggio del 2007 per la regia di Pappi Corsicato, tratto da La voce umana di Cocteau e presentato a Torino Film Festival. Fu girato in tre soli piani sequenza nel teatro Verdi di Salerno in un'unica giornata di lavoro. Fu un'esperienza difficilissima ed esaltante, sorretta dalla fotografia sapiente di Cesare Accetta. Nello stesso anno ero presente anche per una partecipazione al primo cortometraggio di Francesco Ghiaccio coadiuvato dall' ormai famoso Marco D'Amore. Entrambi hanno lavorato in diversi miei spettacoli e mi hanno accompagnandomi per anni e vivendo per mesi in Romagna. Sono molto fiera della loro strada nel cinema e se siamo ancora vicini, certo qualcosa di quel mondo risuona in me. Del cinema mi piace tutto, anche quello che di solito viene considerato insopportabile, come le lunghe attese e le improvvise accelerazioni. Mi affascina la sua totale crudeltà che rende vicine, come marinai sulla nave, tutte le persone sul set. Si deve lavorare con i testi e i personaggi, ma anche combattere con il vento, il sole, la pioggia. Eppure questa vicinanza si tramuta in un attimo in siderale solitudine e anche questo aspetto difficile ha la sua parte di fascino, quella dell’eroe solitario che ci ha incantato da bambini. Ralph Fiennes, persona che comprende molto, mi ha detto: “Hai visto Elena cos'è il cinema? Aspetta aspetta e poi fai. Subito. Bene. Senza sbagliare mai. E poi via”. E’ vero, anche per loro. La ritengo certo anche un'arte pericolosa, ammaliante, spaventosamente precisa e allo stesso tempo casuale, talmente ambiziosa da credere di poter rubare la vita vera e consegnarla all'eternità. Chi vive immerso nel cinema delle star e nel suo mondo spesso deve attuare una rete quasi manicale di riti quotidiani, di protezioni e cure per non impazzire! Ricodo l’emozione malinconica che ho provato nel vedere Melanie Griffith, fantastica e fragile e figlia del biondo idolo di Hitchcock, Tippi Audren, osservare, insieme ad una folta platea, la figlia Dakota nei suoi primi ciak del film. Ho pensato che ancora si ha bisogno di illuderci di poter creare gli dei, di renderli eterni per un attimo nella pellicola per innalzarli e poi distruggerli, come bambini che rompono i giocattoli. Ovviamente, ci sono molti altri modi di fare cinema e ne ho fatto esperienza con grande piacere,
sia con Tonino de Bernardi che con Corsicato che con gli amici Valli e Pretolani di VACA (Vari Cervelli Associati, associazione russiana molto nota per i Libri Mai Mai Visti ma all’opera anche su altri versanti, tra cui quello cinematografico, ad esempio con Berbablù, dove la Bucci interpreta un ruolo, ndr e quelli di Camerastylo Stefano Bisulli e Mauro Baratti. Ma tutti fanno tremare e fanno crollare ogni sicurezza. Forse anche per questo il cinema mi piace tanto e mi induce ad una sorta di meditazione: nel momento dell’azione, quando tutte le forze sono tese a rubare la bellezza, la vita e l’emozione per fermarla nei nostri rudimentali apparecchi, tanto avari e freddi se confrontati con i nostri occhi, l'apparenza del reale si spacca e lascia intravedere altri mondi, altri modi di guardare, altre identità, altre verità che danno scandalo, consolano, svegliano, costringono a comprendere. E’ l’ennesimo tentativo umano di essere Prometeo e di rubare il fuoco, di essere Adamo ed Eva e di mangiare la mela della conoscenza. Come non subirne la malia? Anche se sono certa che presto, nel mondo che cambia, altri modi di fare arte, molto lontani da questo universo di star, torneranno ad avere un importante ruolo di cura dal male della vita. Sarà altrettanto necessario e affascinante. Un mondo nuovo».
Qual è la differenza più grande tra fare l'attrice in teatro o in un film?
«Me lo sono domandato spesso e continuo a domandarmelo. Certo l’assenza o la presenza del pubblico nel momento della creazione e dell’azione, parte integrante dello spettacolo dal vivo, fa pensare ad alcune differenze. Ma anche la troupe è pubblico, anche l’occhio di chi di guarda da dietro la cinepresa. Forse il teatro permette ad un attore di essere più ampio e vario, senza età, con linguaggi più articolati che non debbano passare per forza da una forma di naturalismo. Forse permette una maggiore trasformazione. Ma basta guardare cinematografie meno convenzionali perché questo mio tentativo di definizione crolli. Eppure la differenza energetica esiste, anche se non so ancora definirla. Certamente chi fa teatro ama non essere fermato, una volta per tutte, in una sola immagine irreversibile. Ama cambiare, sfuggire, sgattaiolare via con il suo carico di storie. Ma forse parlo per me, che odio essere fotografata e riesco sempre a voltare la testa nel momento sbagliato. O che mi presento al photo call di Venezia come mai vorrei essere, senza riuscire a fare diversamente, quasi mi sabotassi da sola. Rimanere ferma, una volta per tutte, in un solo ciak tra tutti quelli possibili, mi fa paura. E non sempre il ciak scelto è quello migliore per la resa dell’attore. Contano tanti fattori, dalla fotografia, all’inquadratura alla metereologia! Una lezione di umiltà, da un lato, un senso di smarrimento dall’altro. Come ho già detto, chi fa teatro forse non si illude di restare, chi fa cinema, forse, fa di tutto per riuscirci. Ma i particolari del lavoro, la vicinanza, la complicità, la solitudine, le paure, le follie e le irragionevoli gioie sono del tutto simili. Detto questo, ogni esperienza fa storia a sé, sia in cinema che in teatro. E’ sempre molto pericoloso generalizzare, si viene subito burlescamente puniti e contraddetti dalla meraviglia della varietà della vita».
I prossimi progetti, ovviamente anche teatrali?
«Da tremare. Avevamo molti progetti in cantiere e pare che stiano andando in porto tutti quanti, costringendoci ad un grande lavoro in tempi brevi. Sto preparando due produzioni, una in solitario dedicata a Laura Betti che aprirà la stagione del teatro di Casalecchio, che da lei prenderà il nome, e una con Marco Sgrosso e le Belle Bandiere intorno alle figure di Giasone e Medea, in collaborazione con il Centro Teatrale Bresciano, con noi da molti anni. Debutteremo in anteprima a Russi in novembre e in prima nazionale in aprile a Brescia, dove resteremo un mese intero. Nel frattempo io porterò a Mosca il mio spettacolo su Eleonora Duse, Non sentire il male, mentre in dicembre saremo con Locandiera di Goldoni a Pechino. Hanno scelto il nostro lavoro tra molti altri e abbiamo avuto questo contatto soltanto per la stima di un artista verso il nostro teatro. Che bello. Come farò? Ho paura dell’aereo! Ma la paura diventa sempre, per me, la prossima sfida».